Daniele Orlando: l’uomo che suonava Milano | Rolling Stone Italia
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Daniele Orlando
L’uomo che suonava Milano

Che cos’hanno in comune Rolling Stone, Magazzini Generali e Fabrique, oltre ad aver ospitato grandi del rock internazionale? Sono o sono stati gestiti da questo ex dj che sognava d’intrattenere la città. L’ultima sfida: trasformare gli ippodromi in grandi venue estive

Foto: Antonio Giancaspro

Dieci anni di Fabrique. Dieci anni di musica, di grandi eventi, di una visione che ha riscritto le regole dell’intrattenimento a Milano. Daniele Orlando, mente e cuore pulsante dietro questo brand che ormai si è esteso ben oltre al locale di via Gaudenzio Fantoli, ha fatto molto di più che aprire un club: ha ridisegnato il modo in cui la città pensa gli spettacoli dal vivo. Oggi il Fabrique non è solo un club, è un’istituzione. «Il segreto? Non essere legati a un genere, ma alla qualità. Da noi non ci sono artisti di serie A o B. Chi sale su quel palco sente un’energia che moltiplica tutto», ci ha spiegato quando lo siamo andati a trovare nel suo ufficio, al secondo piano, con le pareti nere incorniciate da decine di foto di grandi artisti che hanno calcato questo palco e un’enorme scritta alle spalle della sua scrivania, che è tutta un programma: “It’s only rock ‘n’ roll”.

Ma Orlando non si è fermato al Fabrique. Ha capito prima degli altri che Milano aveva bisogno anche di spazi da decine di migliaia di persone. Così ha preso in mano gli Ippodromi di San Siro e La Maura e li ha trasformati in posti dove ospitare i concerti dei grandi promoter. Gli I-Days, Vasco Rossi, i Metallica, Imagine Dragons, Travis Scott: senza il suo coraggio, adesso la città non sarebbe la stessa. «Non puoi fare concerti in un parcheggio in cemento, serve un contesto curato, che offra un’esperienza, non solo uno spettacolo. Ora anche all’estero ci guardano con rispetto, perché riusciamo a portare eventi con un’organizzazione di livello internazionale». Dagli anni ’90 a oggi, ha attraversato ogni epoca della club culture, ha rischiato, ha sbattuto contro le regole della burocrazia, ha litigato con il vicinato, ha imparato sulla sua pelle cosa vuol dire costruire qualcosa che duri: «Riuscire a mantenere alto il livello è la sfida più difficile. Ma il Fabrique ha lasciato il segno. E non ho intenzione di fermarmi».

Ci ha raccontato gli inizi, a partire dalla breve esperienza da ragazzino come magazziniere alla Venus Dischi, la cui fabbrica sorgeva dove 35 anni dopo avrebbe fondato il Fabrique. Gli incontri importanti, come quelli con Maurizio Salvadori e Claudio Cecchetto. Le idee innovative, che in alcuni casi hanno anticipato i social. Le esperienze formative con Rolling Stone e Magazzini Generali. L’investimento apparentemente folle per costruire da zero il Fabrique («che è costato il doppio»). Come ha fatto a convincere il settore dell’equitazione a farsi invadere i propri spazi con soddisfazione reciproca. E perché, nonostante tutto, dopo 30 anni di eventi, quello più difficile che gli è capitato di organizzare è stato il suo matrimonio.

A vedere tutte le attività che gestisci è spontaneo chiederti: come tieni tutto insieme?
Non sono assolutamente da solo, anzi. La grande fortuna che ho è quella di saper scegliere le persone giuste con cui collaborare. Servono anche la capacità, che non è per niente facile da sviluppare, di far funzionare tutto un ecosistema e avere una visione.

Quanto conta il team nelle tue attività?
Quando i pianeti si allineano, ognuno fa la sua parte. E quando accade, ti puoi permettere di fare più cose. Per gestire bene attività del genere devi avere molto tempo per pensare e ti manca se sei troppo preso dalla gestione ordinaria. Se riesci a costruire uno staff solido e affidabile, allora hai il tempo di riflettere e immaginare il futuro.

Da bambini spesso si sogna il lavoro che si vorrebbe fare da grandi. Tu sognavi già allora di lavorare nel settore dell’intrattenimento?
Il piccolo Daniele voleva fare il dj. Ero affascinato da quel mondo già a 13-14 anni, quando c’erano ancora le domeniche pomeriggio in discoteca. Parliamo della fine degli anni ’80 e dell’inizio degli anni ’90.

Perché allora non una carriera da dj?
Inizialmente mettevo i dischi, ma dopo un po’ mi stancavo di stare in console. Mi piaceva scegliere tre o quattro brani, quelli che facevano esplodere subito la pista, ma quando bisognava concentrarsi per mixare bene, uscivo dalla console e iniziavo a girare per il locale, cercando di capire cosa si poteva migliorare per la settimana successiva, se si potevano inventare delle feste, parlare con gli organizzatori. Già allora avevo una visione più ampia.

Infatti, neanche ventenne, dimostri di avere delle idee molto originali, come al New Magazine nel 1994.
Quello è stato il mio primo vero successo e avevo solo 18 anni. Ho trasformato una grande discoteca di Milano, che non poteva più far ballare per via delle restrizioni, mettendo dei telefoni sui tavoli. La gente iniziava a interagire attraverso quelli. Un’idea che ha creato un fenomeno sociale incredibile, attirando l’attenzione a livello nazionale. Allora ho compreso che quello sarebbe stato il mio mestiere.

Una idea che sembra anticipare il concetto alla base dei social.
Sì, infatti qualcuno in effetti lo ha scritto da qualche parte. Era una sorta di social network in versione analogica, ma molto più autentico di quelli che esistono oggi. Perché tutto accadeva in uno spazio fisico, reale, con il contatto umano possibile e diretto. Il club era un luogo di incontro dove le persone comunicavano davvero tra loro, senza nessun tipo di filtro.

Foto: Antonio Giancaspro

Dopo più di 30 anni ci troviamo nel tuo ufficio al Fabrique, dove alle pareti le foto degli artisti che lo hanno frequentato dimostrano una storia di successo. Ma è vero che, proprio qui, hai lavorato come magazziniere?
Proprio così. Tutto torna, ma in maniera esagerata. A volte mi emoziono quando ci ripenso. Ho iniziato a fare il dj, solo che i dischi mix costavano parecchio. Per un ragazzo come ero io allora era una spesa enorme. Qui in via Fantoli al 9 c’era la fabbrica della Venus, un distributore di dischi leggendario. Quindi pensavo: cerco un lavoro lì, così magari ho uno sconto sui dischi. Mi hanno assunto in prova, però il lavoro fisico non era il mio forte. Dopo sei mesi mi hanno licenziato dicendo: «Facciamo che continui come dj, perché questo lavoro non fa per te».

Ti lasciava poco tempo per pensare…
Esatto! A ripensarci sembra una storia romanzata, ma è andata esattamente così. Quando nel 2014 cercavo un luogo adatto per portare in Italia le serate dei grandi dj della scena di Ibiza, che temporaneamente organizzavo negli Studios di via Mecenate qui vicino, camminando di notte nei dintorni ho “visto” il Fabrique. Me lo sono immaginato passando davanti al capannone in disuso dove una volta c’era la Venus. Mi sono informato, ho acquisito la proprietà e in pochi mesi l’ho costruito come lo vedi ora. E dopo 30 anni mi ritrovo a essere in questo posto con una visione completamente nuova, ma coerente con quel passato. Qui si vendeva musica, adesso qui si fa musica dal vivo.

Come in ogni grande storia che si rispetti, anche gli incontri sono decisivi. Fra i tanti che hai fatto negli anni ’90 ce n’è uno che ha lasciato il segno: Claudio Cecchetto.
Gli incontri nella vita sono fondamentali, alcuni sono stati decisivi, mi hanno cambiato completamente, mi hanno insegnato tanto e mi hanno fatto riflettere. Quello con Claudio Cecchetto è stato determinante. Lui, in quegli anni, aveva Radio Capital e organizzava le serate Venerdisco al Propaganda di Milano.  Una sera sono andato a trovare il mio amico dj Fabio Parente, che per un’urgenza mi ha chiesto di sostituirlo in console per dieci minuti. Il problema è che non ricordavo i titoli dei dischi, quindi li ho scelti a occhio basandomi sulle copertine.

È stato un disastro?
La cosa incredibile è che in quel quarto d’ora di musica senza senso il pubblico è impazzito. Claudio si è informato su chi fosse quel giovane dj e il giorno dopo mi ha offerto un contratto. Da lì è nata una collaborazione che è durata due anni. Mi ha insegnato molto su come stare sul palco e su come comunicare. Cecchetto, in quegli anni, era un punto di riferimento per tutti. Se volevi fare radio, volevi essere Albertino. Se volevi fare spettacolo, volevi essere Fiorello. Se volevi fare musica pop-rap, volevi essere Jovanotti. Cecchetto era il regista di tutto quel mondo e ha influenzato tantissime persone.

Poi nei primi anni del 2000, sotto la proprietà di Maurizio Salvadori, diventi amministratore delegato del Rolling Stone di Milano. È stato il primo giro di boa?
Sì, perché lì ho capito veramente cosa significa gestire un locale. Avevo solo 22 anni quando mi sono proposto e Maurizio Salvadori mi ha preso sul serio soltanto perché dimostravo più anni di quelli che avevo. «Questo mi sembra uno giusto, proviamoci».

Un locale che però era molto caratterizzato, in particolare sul rock.
Mi sono fatto le ossa. Il Rolling Stone aveva una storia incredibile ed era un nome fortissimo, ma era appunto molto legato al rock. Nonostante questo, mentre lo gestivo, ho iniziato a pensare a come diversificare le serate, come quelle del P:Gold che ho sperimentato una volta al mese la domenica. E anche se abbiamo cambiato genere, facevamo 4000 paganti. In quel periodo ho avuto la prima visione.

Foto: Antonio Giancaspro

Arrivano però anche i primi problemi, come le proteste del vicinato per il volume troppo alto, con le star italiane e internazionali che non accettano di esibirsi con i limiti imposti. A poco più di vent’anni come se ne esce?
Intanto ho capito che i grandi locali, con capienza dai 1500 posti in su, non possono stare nel centro delle città o in luoghi densamente abitati. Ho anche scoperto che esistevano i processi penali per il reato di inquinamento acustico. Ne ho dovuti affrontare due. Ho imparato tutto sbattendoci la testa. Ma gli aspetti più difficili di quel periodo sono arrivati dai puristi del rock, che mi hanno criticato duramente, ma la proprietà era contenta perché i conti tornavano.

Perché, se tutto aveva trovato un suo equilibrio, passi ai Magazzini Generali?
Avevo cominciato a frequentare Ibiza e mi si è aperto un mondo: quello del clubbing, del fare impresa musicale con delle proposte innovative. Ho pensato: se funziona a Ibiza, perché non dovrebbe funzionare anche a Milano? E così ho iniziato a portare i dj internazionali in città. Poi, nel 2006, la proprietà del Rolling Stone decise di vendere e io nel frattempo ho rilevato i Magazzini Generali, ma stavolta come proprietario. In due settimane ho chiuso l’accordo.

Il salto da amministratore delegato a proprietario si è fatto sentire?
No, perché io in realtà sono sempre stato un imprenditore. Il mio primo locale l’ho aperto a 18 anni firmando cambiali per 600 milioni di lire. Che non avevo, naturalmente. Quindi per me era normale rischiare in prima persona. C’è una grande differenza tra essere un dipendente e un proprietario. Quando la macchina è tua, la guidi come vuoi, e se sbatti, sbatti per colpa tua. Quando lavori per qualcun altro, devi stare più attento, giustificare le tue scelte. Io invece sono sempre stato più libero quando ho lavorato per me stesso. Questo però non significa che sia una strada giusta per tutti. Ho visto persone brillanti come dipendenti, ma che quando si sono trovate a firmare cambiali sono andate nel panico e hanno perso ogni capacità organizzativa. Dipende moltissimo dal carattere di ognuno.

Poi finalmente arriva il Fabrique, che nasce da zero e in tempi record.
Sì, in quattro mesi. Abbiamo iniziato i lavori il 4 maggio 2014 e il locale ha aperto il 18 settembre dello stesso anno. In Italia, una cosa del genere è un miracolo. Nessuno ci credeva che ce l’avrei fatta, ma è stato molto bravo lo studio degli architetti Daniele e Roberto Beretta.

Anche qui la partenza non è facile, perché al primo concerto ti accorgi dal parterre che le prime due file vedono il palco, ma già dalla terza no. E quindi?
Chiamo le ruspe e ricomincia il cantiere, con un lavoro durato nove giorni. Così, dopo aver già investito tanto, ho dovuto aggiungere altri 200 mila euro.

Si può dire quanto è costato il Fabrique?
Preventivati erano due milioni di euro. Alla fine ne abbiamo spesi quattro. Più i 200 mila per rifare il parterre. Ma io sono un martello, quando ho un’idea in testa la realizzo. L’esperienza mi aveva formato, anche se investire tanto senza avere quei soldi in banca fa effetto.

Qual è, secondo te, la forza del Fabrique?
La mia fortuna, sono convinto, è non essere legato a un genere. Al Fabrique passiamo dai dj della disco all’elettronica, dal format anni ’90 ai concerti live. E il Fabrique, anche per questa versatilità, è diventata una vera e propria casa per gli artisti. Chi suona qui lo dice sempre. Non importa se vendi 1000 biglietti o 3000, quando sono sul palco hanno la percezione di avere di fronte 10 mila persone. Per noi non esistono artisti di serie A e di serie B.

Il Fabrique come percezione sembra esistere da più di dieci anni.
Me lo dicono in tanti. Credo che sia perché è diventato un punto di riferimento. La gente si sente a proprio agio da noi. Penso sia questa la chiave del nostro successo. E il team che ci lavora contribuisce in modo incredibile. Poi c’è un’ottima collaborazione con la questura, che manda le forze dell’ordine a fare tutti i controlli del caso. Il locale è studiato in modo intelligente e sicuro. Abbiamo attraversato senza conseguenze anche il periodo in cui andava di moda spruzzare lo spray al peperoncino, con conseguenze a volte drammatiche. Ma noi abbiamo un sistema di uscite di sicurezza che in 20 secondi permette l’uscita di 3300 persone. E poi lo ricordo spesso: il Fabrique non ha due palchi, ne ha uno solo. Non esiste una seconda sala. Quindi se vieni qui fai il tuo spettacolo davanti a tutti. E ti obbliga a dare il massimo.

Foto: Antonio Giancaspro

Il mondo dei club ha vissuto una selezione spietata, in particolare dopo la pandemia. Ora qual è lo stato di salute del settore?
Siamo stati i primi a chiudere e gli ultimi a riaprire, ma sapevo che sarebbe tornato tutto come prima e che anzi nel post Covid ci sarebbe stato un effetto elastico, come poi è stato. Persino un po’ esagerato, perché a un certo punto c’erano dj set ovunque. E questa esagerazione, alla lunga, la paghi. In questo momento è in corso una flessione fisiologica. L’importante è avere una attività versatile, anche in estate.

Così rilanci con un’altra visione: dal 2016 Fabrique prende in gestione l’Ippodromo Snai San Siro, quello del galoppo, e nel 2022 l’Ippodromo La Maura, quello del trotto, adiacente al Parco di Trenno. Spazi per concerti che a Milano incredibilmente mancavano e permettono ai grandi promoter di organizzare live enormi, come gli I-Days.
Questa è stata senza dubbio una visione. Mancavano delle grandi venue estive. Anche perché non puoi fare concerti in un parcheggio di cemento, serve un contesto più curato e vivibile. Noi con gli ippodromi ci stiamo riuscendo, ma è stato un lavoro lungo e faticoso. La casualità ha voluto che Snai diventasse proprietaria degli ippodromi, io conosco l’amministratore delegato e lo chiamo, è un grande amante della musica e quindi non la vede come un problema, lo convinco a credere nel progetto e nasce una collaborazione che nel tempo è proseguita sempre meglio. Fino a quando percepisco che serve uno step successivo di capienza, da 34 mila ai 48 mila con i Metallica nel 2019 e fino agli attuali 78.500. Con una buona programmazione,  grazie a tutti i promoter che producono i concerti dei loro artisti da noi, una buona gestione degli ippodromi da parte nostra, non solo per il rispetto dovuto alle persone che vivono in zona, ma anche per la manutenzione del prato che poi viene utilizzato per le corse dei cavalli. Siamo arrivati per gli I-Days del 2022 ad aprire con il concerto di Vasco Rossi, grazie a Roberto De Luca e a Corrado Rizzotto di Live Nation che ci hanno dato fiducia per inaugurare lo spazio con due eventi così importanti, oltre a ospitare artisti internazionali come Imagine Dragons, Green Day, Lana Del Rey, Metallica, Liam Gallagher o eventi come quello di Travis Scott e il Marrageddon di Marracash, organizzato da Friends and Partners nel 2023.

Per chi, come te, lavora con un pubblico sempre diverso, ce n’è uno più semplice di un altro, oppure ogni pubblico comporta difficoltà da affrontare?
Come non ho un genere musicale preferito, non ho un pubblico preferito. Ogni evento ha la propria energia. Certo, i ragazzi più giovani vanno seguiti con maggiore attenzione, perché magari è il loro primo concerto e non sanno ancora bene come comportarsi. Ma la cosa bella è che quando la gente si diverte è tutta uguale. Non importa se balla, salta o poga, l’importante è che ci sia energia e da parte nostra l’attenzione affinché tutto fili liscio.

Dopo tanti anni e un numero difficile da calcolare di eventi organizzati, riesci ancora a partecipare a un concerto per puro piacere?
(Fa un lungo sospiro e poi una risata quasi liberatoria) Nonostante tutti gli impegni mi piace ancora esserci, in particolare in estate, per stare con gli amici che organizzano concerti. Stiamo nel backstage a raccontarcela, poi parte lo show e andiamo in tribuna a godercelo.

Ma l’occhio scappa sempre sull’organizzazione o riesci a non pensarci?
No, no, c’è sempre l’occhio dell’esperto. Se mi invitano, non riesco a non farci caso. Sarà la deformazione professionale. Anzi, ti dirò di più. Devo il mio successo a mia moglie Fabiola Casà, speaker di Radio 105, per la serenità che mi ha saputo dare in questi dieci anni. Anche perché, ci terrei a sottolinearlo, quando nel 2014 è nato il Fabrique mi sono anche sposato.

Quale dei due “cantieri” è stato il più difficile da organizzare?
Senza dubbio il matrimonio. Posso dirlo senza timore di essere smentito. Quindi ho festeggiato dieci anni di matrimonio e dieci anni di Fabrique. Meglio di così non si può.

Il concerto che ti ha emozionato di più?
Quando vado a vedere Vasco Rossi mi emoziono sempre. I suoi sono gli unici concerti della mia vita dove, veramente, torno ragazzino. Non c’è nessun altro che mi fa quell’effetto lì. Ecco, quando si è esibito all’Ippodromo per una volta non ho pensato all’organizzazione.

E adesso che hai realizzato tutto questo, ha già una nuova visione?
C’è, ma non posso dirla. È fresca di oggi, ma appena sarà concreta sarete i primi a saperla. Per ora il mio obiettivo è mantenere quello che abbiamo costruito. Sembra banale, ma non lo è per niente. Restare in cima è molto più difficile che arrivarci. Se riusciamo a mantenere la qualità che abbiamo oggi, allora possiamo dire di essere bravi. Poi ci sono altre collaborazioni, però la cosa più importante è che il Fabrique resti il locale forte che è da anni. Io lo sento, lo voglio e me lo auguro: il Fabrique sarà un locale che lascerà il segno.

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