Socialismo e Lamborghini, il rap in Cina è un problema per il Partito | Rolling Stone Italia
Storie

Socialismo e Lamborghini, il rap in Cina è un problema per il Partito

Dopo il successo esplosivo del programma tv ‘The Rap Of China’ nel Celeste Impero è scoppiata la febbre hip-hop, ma dalle alte sfere governative non sembrano averla presa bene anche se sono molti i rapper che nelle proprie rime glorificano il regime.

Socialismo e Lamborghini, il rap in Cina è un problema per il Partito

PG One, uno dei rapper sotto l'occhio del Partito Comunista cinese.

L’estate scorsa l’hip hop è diventato popolare in Cina in maniera definitiva grazie ad un programma televisivo dal nome evocativo: The Rap of China. Il format del programma è quello noto: dei produttori insegnano ai partecipanti cosa sia il rap e li guidano attraverso una competizione al cardiopalma.

Il reality è cresciuto rapidissimo in popolarità dalla sua prima puntata il giugno scorso, raggiungendo in solo 4 ore dal suo primo episodio 100 milioni di spettatori. Nel suo primo mese lo spettacolo ha accumulato 1,3 miliardi di visualizzazioni, numeri da capogiro anche in Cina, rendendo per la prima volta nella storia l’hip hop mainstream nel paese, mentre alcuni dei concorrenti diventavano stelle indiscusse del Celeste Impero e firmavano contratti milionari.

Ma mentre milioni di fans iniziavano a usare il freestyle per comunicare in rete e alla ravioleria sotto casa, qualcun altro faceva attenzione alle strofe dei rapper: il PCC.

More money, more girls

In effetti una delle canzoni più “comuniste” degli ultimi tempi è proprio di Sun Bayi, uno dei concorrenti dello show. Mentre canta di cose importanti per il socialismo come Lamborghini e champagne, il suo ultimo titolo, Brillante Cina, è praticamente una carrellata di dogmi del Partito. La prima strofa è emblematica e l’ho tradotta più o meno così: “Tutti sanno che la missione del Partito Comunista Cinese è cercare la felicità per il popolo e rinvigorire la nazione”. Si passa da “più soldi e più femmine” a “ il sole è ancora rosso ad Est”. E senza passare per il via.

Le autorità cinesi, un po’ come me d’altronde, non sono mai state amanti del genere e in passato hanno già fatto modificare i testi di alcune canzoni perché promuovevano violenza o usavano parole “oscene” (tradotto letteralmente).

Si è però passati al livello successivo e sono stati bannati interi album di quelli che considerano artisti non conformi alle linee del Partito. La cosa sta avendo sui rapper del regno di Mezzo l’effetto di una doccia fredda, con conseguenti correzioni e trasformazioni dei loro testi e delle loro rime. Giuro di aver visto “bitch is trouble” trasformarsi in “beach is trouble” e, a meno che non fosse un testo denuncia a carattere ambientalista, penso siano chiari gli intenti.

Alla Cina mancano i conflitti razziali e la street culture dei “gangsta” che resero il rap e l’hip-hop forze sociali e culturali in America. Ma lentamente il genere ha messo radici mentre gli artisti infondevano i loro testi di commenti su questioni come le crescenti disuguaglianze economiche del paese, l’inquinamento, aggiungendo riferimenti all’antica filosofia cinese e spesso cantando nei dialetti locali.

E poi è arrivato il grande successo di The Rap of China.

If you try to knock me you’ll get mocked / I’ll stir fry you in my wok

Ma la primavera del rap era destinata a finire durante la Presidenza, o Regime che dir si voglia, di Xi Jinping. Il suo governo ha dato un deciso giro di vite a tutto quello che viene considerato non etico secondo il codice di valori del Partito. Si va dalle saune gay, ai tatuaggi, fino al rap. Cose gravi come mettere il grana sugli spaghetti con il tonno insomma.

In Agosto, l’artista Fat Shady ha provocato una generale alzata di sopracciglia con il suo rap profano contro gli stranieri in Cina.
E il mese scorso, PG One, uno dei vincitori di The Rap of China, è finito sotto i riflettori per un suo testo del 2015 che contiene riferimenti a sesso e droga. O forse per un gossip su una sua presunta storia con un’attrice sposata. Cose mai viste insomma.

Infine, a metà gennaio, una direttiva governativa trapelata ha vietato che andassero in onda “artisti con tatuaggi, musica hip-hop” e altri contenuti in “conflitto” con la morale del Partito. Una seconda stagione di The Rap of China è ora in dubbio, e gli artisti si lamentano per le tante date cancellate.

Li Dalong, chief operating officer di Mao Livehouse, che ha otto gig in tutta la Cina, ha detto che gli artisti hip-hop ora affrontano “uno screening più attento” per “errori ideologici” nella loro musica. Aggiunge che al momento gli investitori e le case discografiche stanno facendo un passo indietro.

Hit ‘Em Up

Negli anni 90, il rock cinese si trovava in bilico verso una possibile svolta e gli artisti dell’epoca cavalcarono l’angoscia del popolo per il rapido cambiamento socio-economico. Ma il governo bandì in fretta il rock and roll dalla televisione e ne limitò le esibizioni dal vivo, costringendolo a tornare sottoterra. La musica di Satana doveva tornarsene all’ Inferno, solita storia.

Ora si teme la stessa sorte per l’hip-hop o, peggio, che venga cooptato dal partito. Gruppi come il CD Rev della città sud-occidentale di Chengdu cantano rap patriottico, lavorando con la Lega della Gioventù Comunista, i “piccoli comunisti che crescono”, per rilasciare canzoni come This is China.

Il pezzo, accompagnato da un video che purtroppo posso solo definire esilarante, tratta diversi punti di discussione comunisti, come migliorare la sicurezza alimentare e proteggere la sovranità della Cina, con testi che al meglio ho potuto tradurre con “Il drago rosso non è male, anzi è un posto pacifico“. È diventato virale alla sua uscita nel 2016, dobbiamo farcene una ragione. I puristi la chiamano propaganda, ma il membro del gruppo Pissy – Li Yijie – dice che parla di “energia positiva”. Dalla Rivoluzione Culturale alla New Age, letteralmente.

It was alla dream

Per artisti di spicco come Naggy di Shanghai, il futuro non è chiaro. “Dobbiamo trovare un modo per esprimerci, ma non vorremmo dover trovarlo, vorremmo solo farlo”, ha scritto online. Immagino che a questo punto ciò che potrebbe diventare interessante è come questa generazione di musicisti reagisce al divieto, in modo creativo e socio-politico: saranno ancora più rigidi nelle loro posizioni percepite come non tradizionali? O finirà a tarallucci e vino perché la Rivoluzione non è un rap di gala.

You gotta fight for your right to party, ma sospetto che parecchi artisti sceglieranno effettivamente di lavorare con il governo. Come è successo per il rock degli anni 90. Il divieto comprende la più ampia sottocultura della Cina, dal rap fino all’elettronica underground. Un toccasana contro il pessimismo giovanile, staranno pensando a Pechino i funzionari del Partito.

Oggi ho contattato su wechat Mr Trouble, il cui rap tocca temi come il romanticismo, i suoi amati genitori e la sua infanzia. Una sorta di Fabri Fibra di Shanghai. Nonostante il suo soprannome da cattivo ragazzo, mi dice che il governo cinese “sta facendo un buon lavoro” nella gestione del grande paese. Dice che “questi sanno cosa fare, ci dobbiamo fidare. Dobbiamo lasciarli lavorare.”
Ma sta temperando i suoi sogni. E ammette che se l’Hip-Hop verrà definitivamente bannato in Cina continuerà a cantare solo sotto la doccia.

In effetti forse stanno facendo un buon lavoro, mi devo fidare, dobbiamo lasciarli lavorare.

Altre notizie su:  opinione