Raqqa è libera, ma la vittoria non è dell'America di Trump | Rolling Stone Italia
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Raqqa è libera, ma la vittoria non è dell’America di Trump

L'inviato di Rolling Stone nei territori occupati dall'ISIS racconta le atrocità di una battaglia durata anni, spiegando perché sarebbe grottesco se il presidente USA si prendesse il merito al posto dei soldati curdi

Raqqa è libera, ma la vittoria non è dell’America di Trump

Tre cecchini delle Forze Democratiche Siriane (FDS) nell'area Al Dariya, zona ovest di Raqqa, Siria, 24 luglio 2017. Foto di Morukc Umnaber/dpa

Raqqa, la capitale dello Stato Islamico, è caduta. La battaglia era iniziata a luglio, quando una milizia guidata dalle truppe curde e appoggiata dagli Stati Uniti aveva attaccato il confine da nord e da ovest. Lavorando come reporter sul campo di battaglia, ho assistito a un combattimento atroce sotto temperature inimmaginabili. In una città ridotta a un cumulo di calcestruzzo, il presidio dei combattenti ISIS, circa 4.000, ha resistito all’assedio con attacchi suicidi e auto bombe, trappole, tunnel, cecchini e droni controllati a distanza; oggi, stando a quanto riportato dal colonnello dell’esercito americano Ryan Dillon, portavoce della coalizione anti-ISIS guidata dagli americani a quattro mesi dall’inizio della battaglia, più del 90% di Raqqa è stato cancellato. Nei video postati sui social si vedono i combattenti curdi festeggiare in mezzo alle strade ridotte a macerie mentre sventolano bandiere gialle e verdi o sparano in aria in segno di vittoria.

Il risultato è una vittoria geostrategica inequivocabile per gli Stati Uniti; l’ISIS ora non controlla nessuna fra le città principali, e ciò che resta del suo esercito ufficiale è in ritirata. Tuttavia Donald Trump, il comandante in capo dell’esercito statunitense – per non parlare del più grande spaccone mai arrivato alla Casa Bianca – non ha ancora rilasciato un comunicato ufficiale, al di là dei soliti tweet. Il suo unico commento pubblico in proposito risale a martedì mattina, quando il conduttore di una radio politicamente di destra, Chris Plante, gli ha lanciato un’assist facile da cogliere: «L’ISIS sta per essere schiacciato – ha detto Plante – ci sarà un cambiamento nell’impegno militare?».

«Ci saranno regole d’impegno militare ben precise – ha risposto Trump – Io ho totalmente cambiato la strategia militare». Riferendosi poi all’amministrazione Obama ha commentato: «Prima non combattevamo per vincere, ma per essere politicamente corretti».

Non è una sorpresa che Trump voglia prendersi il merito, tuttavia, la realtà dei fatti dice che la liberazione di Raqqa è il risultato di tre anni di battaglia in Iraq e in Siria che Trump ha ridicolizzato durante la sua campagna elettorale, ma che ha silenziosamente adottato una volta diventato presidente, dato soprattutto il fatto che non ha mai proposto niente di migliore.

Quando iniziò la guerra civile in Siria nel 2011, con il volere di Obama la CIA ha largamente supportato le rivolte in Arabia Saudita contro il giogo di Bashar al-Assad. Nel momento in cui la guerra iniziò, la priorità di Obama si spostò dal rovesciamento della dittatura all’annientamento dell’ISIS. Nel settembre 2014, Obama ordinò il primo attacco di avvertimento in Siria – una serie di raid aerei sull’ISIS per proteggere il popolo curdo, una minoranza massacrata dai jihadisti perché ritenuti contro il credo estremista. Una volta supportati dall’aeronautica statunitense, le milizie curde hanno iniziato a respingere l’ISIS, formando le basi per un esercito multi-etnico, le Forze Democratiche Siriane, nate per combattere lo Stato Islamico in nome della democrazia e dei diritti umani. Tuttavia, l’amministrazione Obama si è rivelata incerta nel supporto militare a questa nuova coalizione. Il problema, infatti, era la Turchia: un alleato NATO proprio sul confine siriano ma con un governo molto più preoccupato dalla possibilità che i curdi potessero ottenere dei territori piuttosto che dall’avanzata del Califfato. L’amministrazione Obama, infine, scese di sfidare la Turchia, approvando la richiesta del Pentagono di dare alla FDS le armi pesanti, veicoli blindati e le artiglierie necessarie per prendere Raqqa.

Nel frattempo, Obama schierava cautamente le truppe americane nella Siria settentrionale. I primi erano un commando di elite, che segretamente informava i curdi sulle tattiche da tenere sul campo di battaglia. Nel frattempo il frangente americano cresceva, includendo forze dall’esercito, dalla marina, dall’aeronautica e dalle truppe speciali. Quando Obama lasciò la presidenza, erano circa una dozzina le basi militari americane sul suolo siriano. Questa invasione in incognito non aveva alcuna base nel diritto nazionale e internazionale; Il Congresso non ha mai autorizzato il presidente a utilizzare la forza militare in Siria in base all’articolo I della Costituzione, né tantomeno un attacco era stato approvato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I curdi, tuttavia, erano grati del supporto internazionale. Lavorando come reporter in Siria nel novembre 2016, ho visto le forze americane avanzare in prima linea, decidendo quale fosse la strategia migliore, villaggio dopo villaggio, nel cammino che portava a Raqqa. Una delle ultime decisioni di Obama è stata quella di approvare l’impiego di 400 artiglieri della marina, portando il frangente americano a circa un migliaio di truppe.

Mentre tutto ciò accadeva, Trump era in campagna elettorale, impegnato a definire Obama come “il fondatore dell’ISIS”. Aveva anche detto: «Conosco meglio io l’ISIS rispetto ai nostri generali», denigrando poi l’intera operazione anti-ISIS dell’esercito americano condotta su Mosul, definendola “un completo disastro”. Aveva anche detto che se fosse stato eletto, avrebbe spazzato via le politiche di Obama e che avrebbe dato al Pentagono trenta giorni per proporre una nuova strategia. Il 17 gennaio 2017, l’amministrazione Obama si era rivolta al team per la transizione di Trump, consegnandogli lo stato delle strategie militari anche in vista del futuro. Trump ha rifiutato ogni tipo di suggerimento da parte di chi già da anni era impegnato nella lotta contro lo Stato Islamico. Parlando con il Washington Post, un funzionario di Trump definiva le strategie militari “un lavoro scadente con enormi lacune”. La diretta conseguenza fu che in Siria la FDS bloccò l’offensiva contro l’esercito del Califfato.


I rapporti ombrosi tra l’amministrazione Trump e il governo Turco hanno pesato molto sulla decisione di non supportare il fronte di liberazione curdo. Non è un caso, infatti, che l’ex consigliere della sicurezza nazionale Michael Flynn non sia riuscito a coprire un versamento di 500.000 dollari ricevuto da uomini d’affari turchi vicino al governo di Erdoğan, che di fatto rese Flynn un agente turco stando alle leggi americane che regolano la lobbying straniera. A Istanbul c’è una Trump Tower, e quando Erdoğan – dopo un referendum quanto mai sospetto, voluto dopo un golpe ancora meno chiaro – riuscì ad ottenere un potere molto vicino alla dittatura, Trump è stato l’unico leader dei grandi paesi occidentali a congratularsi col leader turco. In seguito, quando le forze aeree turche hanno bombardato a tappeto le aeree controllate dalla FDS – facendo di fatto un favore all’ISIS – uccidendo dozzine di soldati americani che si trovavano in quelle zone, Trump non ha detto ne fatto nulla, anche se gran parte dei vertici dell’esercito e del Dipartimento di Stato era furibondo.

Come promesso, Trump aveva dato ai suoi generali trenta giorni per proporre una nuova strategia. Il 27 febbraio, il Segretario della Difesa, James Mattis, ha avanzato la nuova proposta. I dettagli sono ovviamente classificati, e non si sa quale fu l’opinione di Trump a riguardo. Il 22 di marzo, Mattis rivelò al Congresso che il Pentagono era ancora al lavoro su una nuova strategia. Alla fine, nulla di nuovo è stato proposto e Trump sta ancora adottando la strategia dell’amministrazione Obama, senza aver apportato alcuna modifica.

Convogli militari carichi di veicoli corazzati e artiglieria pesante hanno ripreso a entrare in Siria dall’Iraq settentrionale, accompagnati dalla Marina statunitense e dall’esultanza dei curdi raccolti sulle strade. L’offensiva è ricominciata e a luglio le forze curde avevano conquistato il centro di Raqqa. Il combattimento per liberare Mosul è durato un anno, il combattimento per le strade di Raqqa è durato relativamente quattro mesi in meno. Ieri, i soldati curdi vittoriosi hanno postato foto dopo aver conquistato la tristemente nota Paradise Square, il luogo in cui l’ISIS giustiziava arbitrariamente le persone, lapidava a morte donne accusate di tradimento o metteva in bella mostra teste decapitate. Questa mattina, un portavoce della FDS ha riferito che l’ISIS è stato respinto nel suo ultimo baluardo, l’ospedale nazionale e le zone circostanti.


Sarebbe grottesco e ridicolo se Trump attribuisse questa vittoria alla sua amministrazione. Ha rigettato i protocolli approvati dalle due precedenti amministrazioni, e voluti per ridurre al minimo le vittime civili, senza aver minimamente inciso sul risultato del combattimento per Raqqa, a cui i soldati americani non hanno partecipato. Il colonnello Dillon mi ha riferito che le truppe americane si trovavano sul posto solo per “assistere e accompagnare la FDS”: «Non era previsto che fossero quelli che sfondavano le porte». Durante la mia permanenza a Raqqa non ho mai visto un soldato americano sparare un colpo.

Ciò che, sopra ogni altra cosa, è stato decisivo per il risultato sono stati il coraggio e la competenza dimostrata dalla FDS sotto la guida dei curdi, che non sono semplicemente non sono solo un’altra fazione partigiana, ma un movimento rivoluzionario che si impegna a fondare la democrazia e gli ideali egualitari. L’eneorme beneficio ricevuto dall’America con armi, supporto aereo, artiglieria e consigli riguardo alle operazioni speciali – tutto ciò era già in essere prima che Trump prendesse la Casa Bianca, il quale con riluttanza si è limitato a confermare la strategia Obama dopo che, insieme ai suoi generali, non era riuscito a escogitare nulla di meglio.

La FDS ha combattuto l’ISIS per anni e ha dovuto subire tremendi sacrifici per raggiungere l’obbiettivo degli americani di prendere Raqqa. In una stazione del pronto soccorso nelle periferie della città ho visto i combattenti della FDS non reggersi in piedi a causa delle ferite da arma da fuoco o per le schegge delle bombe. Sotto un caldo torrido, sui marciapiedi di Raqqa, ho visto cadere i soldati curdi sotto i colpi di mortaio sparatogli in faccia. Nel cimitero dei caduti a Kobane, ho visto famiglie fra i detriti, piangere mentre seppellivano giovani di quindici anni, uccisi nei primi scontri a Raqqa mentre sono stati centinaia i ragazzi colpiti dallo stesso destino. Sarebbe vergognoso persino se Trump ricordasse i sacrifici di queste giovani vittime; chiestogli perché Raqqa non sia caduta prima la sua risposta è stata, come al solito, prevedibile: «Perché non avevate Trump come presidente».

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