La storia di Davide: dall’Italia alla Siria per combattere l’ISIS (parte due) | Rolling Stone Italia
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La storia di Davide: dall’Italia alla Siria per combattere l’ISIS | I parte

Nella seconda parte dell'intervista, l'ex combattente parla della lotta allo Stato Islamico, in Siria come nelle nostre periferie

Davide, partito dall'Italia per combattere l'Isis in prima linea

Davide, partito dall'Italia per combattere l'Isis in prima linea

Davide è un ragazzo italiano, partito dall’Italia verso la Siria per combattere in prima linea l’ISIS e il terrorismo. Partito per reagire al massacro del Bataclan, quando nel novembre 2015 la furia omicida integralista si scagliò sui ragazzi presenti a un concerto, lasciando dietro di sé 130 vittime e una scia di sangue impossibile da dimenticare. Ieri Davide, nella prima parte dell’intervista, ci ha raccontato dell’inizio del suo viaggio e di come dalla Siria vedono un’Occidente che sembra più lontano e distaccato dalla tragedia che ogni secondo di più sta dilaniando il Medio Oriente. Oggi, nella seconda parte, il suo racconto dal fronte e di cosa significhi affrontare i militanti dello Stato Islamico, in Siria così come nelle nostre periferie.

Raccontaci dell’ISIS che hai conosciuto tu?
Quando lo combatti fa molta meno paura, loro hanno avuto un ottima strategia mediatica, i video e l’estetica. È l’inquietudine astratta. Ma quando li vedevo di notte quando facevo la guardia erano essere umani come me. Era palese – ad esempio al buio – quando li affrontavamo che loro cercano sempre di buttarla sulla guerra psicologica perché comunque urlavano “Allah Akbar” – una frase che di per sé sarebbe da rispettare, perché è un atto di fede di tutti i musulmani, non certo solo della minoranza fanatica. Per i miliziani è palese che diventa uno strumento per incutere paura, che è un arte che hanno acquisito allenandosi, perché certo inquieta.

Cos’è il nemico sul campo d battaglia?
Sono andato a combatterli consapevole che era una guerra sporca, dove ISIS non rispetta il diritto di guerra, che se ti fanno prigioniero è meglio spararti prima un colpo e pensare a come farne morire il più possibile prima di morire a tua volta. E quelle persone – i miliziani dell’Isis – sono dei pazzi e ai prigionieri di guerra fanno cose indicibili, rendendoli ciechi e mutilati. È logico che questi fanatici abbiano un grado di violenza che cresce nel contesto di appartenenza, dove decapitare è una cosa fondamentale per essere un buon miliziano e sappiamo anche che l’uomo ha un lato oscuro, e ISIS alimenta quel lato dell’umanità, creando un esercito di mostri.

Una delle foto di Davide scattate dal fronte

Vuoi raccontare un episodio che può aiutare a capire la genesi di questa follia che hanno chiamato Califfato?
Ci sono poi alcuni fatti che non ci sono stati raccontati che hanno creato l’humus giusto per lo sviluppo di ISIS. Ti faccio l’esempio più importante: a partire dai giorni di Natale del 2012 e per tutto il 2013 la popolazione ha occupato l’autostrada di Ramadi, in Iraq. Portiamo attenzione sulla sua genesi: era una protesta che prendeva spunto dal movimento M15 in Spagna, gli indignados, le occupazioni delle piazze da parte dei giovani iberici avvenute qualche mese prima. I sit-in di Ramadi sono stati repressi, piano piano la violenza si è acuita, gli scontri, le molotov, le prime pistole e le armi più pesanti che hanno fatto 8000 morti in un anno, 8000. Dopo pochi mesi qualcuno ha proclamato lo Stato Islamico in Iraq a Falluja, una delle città più colpite dalla repressione, così nella regione di Ramadi, dopo quel tipo di brutalità, la risposta dei clan e del popolo è stata in gran parte quella di aderire al progetto del Califfato come forma di “protezione”. Quindi se non si danno alternative allora poi è facile che il mostro cresca. Io non ho mai difeso nessuno dell’ISIS ma questo è un dato inconfutabile. Una forza così non può certamente essere vista con rispetto ma il problema sociale, economico sul territorio deve essere affrontato in maniera consapevole

L’ISIS sposa un certo immaginario dell’Islam, sapendo bene che molte persone che vivono le nostre periferie possono pensare che il loro ‘stile’ può essere la risposta all’esclusione

 

Mettiamo caso che l’isis venga sconfitto militarmente in Siria, cosa succederebbe? Qual è il messaggio che arriva, ha ancora un potere di attrazione?
Sicuramente si, esser sconfitti militarmente non significa politicamente, c’è e ci sarà l’immagine di resistenza ed eroismo che loro vogliono far passare. Vogliono toccare le corde che toccano milioni di persone. La religione musulmana è complessa e loro sposano un certo immaginario dell’Islam, sapendo bene che molte persone che vivono le nostre periferie – credenti o che magari lo diventeranno – possono pensare che il loro ‘stile’ è quello che può essere la risposta all’esclusione. Quando nasceranno alternative politiche e sociali (in Siria come in Europa) degne, allora quello sarà l’inizio della loro fine.

Per chi leggerà questo articolo, come dovrebbe comportarsi chi tutti i giorni si confronta con le differenze e le diversità?
Non si deve scadere nella retorica buonista, ma è un dovere prima di tutto informarsi, è uno strumento di autodifesa per la tua famiglia, per gli amici, per chi ti sta vicino. Le persone hanno un cervello ed è essenziale informarsi. Bisogna capire qual è la scommessa da fare, meglio la città modellata in centro e lasciare le periferie nella decadenza? Poi bisogna vedere dove ci porta… Io non sono amico di tutti, né di tutti gli italiani né di tutti gli stranieri, di base italiani e stranieri non conta, però di base siamo uguali e allora cerchiamo di capirci a vicenda. Se non c’è processo di comunità costituenti nel confronto tra diversi, cosa succederà? Con il settarismo e le divisioni non si va da nessuna parte e non bisogna alzare i muri, quello è esattamente quello che vogliono loro. Io sono partito con la consapevolezza che stavano succedendo cose davvero incredibili. Sia qui in Europa e ancora di più in Siria.

Proprio le periferie, e il modello banlieues in particolare, ho sempre pensato che siano il luogo più interessante per capire le strette connessioni sociali, razziali e economiche che ci sono tra noi e la guerra. Secondo te come è la situazione?
Le cose sono più brutte di quello che sembrano, io quando sono rientrato sono andato a Parigi e sono passato in ognuno dei locali colpiti dagli attacchi, poi ho incontrato amici, tra cui un professore che ha raccontato di una cosa in particolare: un disegno di un bambino che raffigura bombardamento a Mosul con la scritta “L’ISIS è solo contro tutto il mondo“. Di cosa ci illudiamo, lo Stato Islamico è ovunque, anche qua dietro, e l’insurrezione è globale.

Sulla Siria, è davvero un caos incomprensibile?
Se non la capiamo è perché non ci stanno spiegando che succede. Ci sono 3 parti: il regine reazionario di Assad, un blocco teocratico (con diverse anime e processi politici o religiosi diversi) che vuole stati in cui la vita di tutti i giorni è gestito dalla legge coranica e infine quella Confederale e popolare del Rojava, quella che ho sostenuto e sostengo.

Cosa è successo in questi anni?
Siamo partiti da una rivoluzione autentica, nel 2011, che è partita dalle campagne ed è stata una rivolta di classe ma poi esplosa in un disastro epocale. Se Assad è impresentabile e insostenibile, bisogna insistere sul fatto che la cosiddetta opposizione siriana (da dire: aiutata da Turchia e altri paesi occidentali, Usa e Francia in testa in pura funzione anti-Assad) fa parte di quel blocco teocratico – ISIS, Al Queida e Al-Nursa comprese – che crede nella legge divina con tutto ciò che ne consegue. Ed è qualcosa di esattamente opposto a quella del Rojava – a Nord – che è un nuovo tentativo di gestire il territorio in maniera anzitutto laica, confederale e coinvolgendo la popolazione.

Il cambiamento in Medio Oriente deve partire dal ruolo della donna, che non solo è centrale, ma decisivo nei processi politici e militari

 

Quale è l’aspetto più interessante della proposta del Rojava?
Il ruolo della donna, che non solo è centrale, ma decisivo nei processi politici e militari. La donna non è considerata pari all’uomo ma messa al centro, anzi quasi elevata sopra l’uomo grazie al suo ruolo sociale. Secondo la rivoluzione del Rojava il cambiamento che deve avvenire in Medio Oriente e in tutto il mondo dovrà partire da questo tipo di concezione rispetto alla donna. Per questo ci sono interi battaglioni di ragazze, è per questo che nei centri di potere – in tutte le istituzioni della Siria del nord in Rojava – ci sono donne. Quella musulmana, come quella cristiana del resto, è una cultura gerarchica e sfavorevole alla donna. Da qualche tempo in quel contesto la politica significa sviluppo, creare partecipazione, creare economia, gestire le municipalità. Oramai il Rojava è diventato una Confederazione che si è allargata ad oltre 4000 comuni e conta 3.000.000 di abitanti, dove ci sono commissioni che gestiscono la vita collettiva in ambito di giustizia, sanità, istruzione, autodifesa.

Vuoi farmi degli esempi in concreto?
Sono stati fatti dei provvedimenti immediati – sempre sul tema delle donne – appena hanno cacciato il regime e l’ISIS: è stato abolito il delitto d’onore, che era legale (non solo tollerato culturalmente). Ed è stato un trauma perché era un diritto dell’uomo uccidere una donna per tradimento e inoltre hanno abolito la poligamia, quindi significa che il progetto è: non vado contro l’Islam, ma viene rifiutato (come il matrimonio combinato) ciò che limita la libertà dell’individuo. Il discorso è culturale. In quel contesto è stato davvero un elemento di rottura perché ci sono tante uomini laggiù che si sentono toccati da questo cambio culturale. La donna deve prevalere nella società, deve imporre la sua presenza nella società.

E militarmente?
Basterebbe dire che per il Rojava l’importante è inclusione che sconfigge le differenze, non solo un esercito di donne ma anche di etnie diverse, per la prima volta curdi e arabi sono fianco a fianco, ed è una cosa incredibile, basterebbe andare a vedere quante vessazioni hanno subito i curdi negli ultimi 30 anni da parte dei governi arabi.

Chi sono i nemici della rivoluzione?
La Turchia è un fattore importante che sta bombardando oltre i suoi confini, che sta imponendo l’embargo e che minaccia giorno e notte la rivoluzione. Il secondo nemico è Assad, secondo lui sei anni di rivoluzione non hanno avuto alcun valore e bisogna tornare come prima. Nulla è scontato, la situazione è del tutto incendiaria, non solo per i curdi, ma anche tutti gli altri del territorio. È tutto in completa ebollizione e quindi anche l’intervento gerarchico dei governi occidentali o della Russia deve fare i conti con il territorio, con le donne e gli uomini civili e in armi che vivono, si organizzano, lottano in Siria e Iraq. In definitiva chi continua a vedere il Medio Oriente come terra di predazione continuerà a fare danni.

È davvero difficile raccontare la guerra?
Sai è difficile raccontare la guerra, non si fa una cosa utile a raccontare i dettagli perché chi poi legge crede di aver capito e di poterla immaginare, e non si può capire il livello di sofferenze. E allora diciamo, è come se la guerra l’avessimo vissuta perchè ne abbiamo sentito parlare, pensiamo di sapere cos’è, e invece non è così. Non sappiamo nulla. Ad esempio prima mi chiedevi di parlarti del mio momento più felice in guerra, ed è significativo che non mi venga in mente qualcosa, perché non c’è stato. A volte dopo esser tornato, ma anche al fronte, ti chiedi “Ma che ho fatto? Che sto facendo?”, perché ti rendi conto che è la guerra è una situazione ai limiti dell’impossibile