La Catalogna sospesa tra speranza e conflitto | Rolling Stone Italia
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La Catalogna sospesa tra speranza e conflitto

La mobilitazione forse finirà in sconfitta, ma ci insegna cosa vuol dire essere un popolo che si fa Stato

La Catalogna sospesa tra speranza e conflitto

Foto di Jordi Elias Grassot / Alamy / IPA

«Abbiamo fatto qualcosa di grande e lo stiamo facendo, non dormo da giorni e così anche la maggior parte delle persone intorno a me…. ma ho pianto e piango di emozione e di determinazione quando oggi sono in strada, per la prima volta, con tutta la mia famiglia, amici e vicini, un simbolo della trasversalità di questa mobilitazione di massa cittadina e popolare», sono le parole e l’emozione negli occhi di Arianna a rimanermi più impressi al ritorno da una manciata di giorni vissuti nelle strade di Barcellona, tra i quartieri di Sants e Poble Sec, tra il Camp Nou e le piazze colme di manifestazioni oceaniche.

Ho visto Barcellona e la Catalogna cambiare negli ultimi 15 anni, ho sempre considerato la metropoli di “Barna” una singolarità e un’eccezione e oggi non mi sembra esagerato pensare che questi incredibili giorni non siano altro che il culmine del percorso civile, democratico e progressista che viene praticato da almeno una decina d’anni in Catalogna e nella sua capitale.

Scansiamo subito gli equivoci: quello che sta succedendo in Catalogna in queste ore non è una rivoluzione ma non è nemmeno una questione di nazionalismo, è una mobilitazione che forse – forse – finirà in sconfitta ma che ha e avrà il merito di scoprire i limiti di uno Stato nazione come la Spagna e che ci può insegnare molto su cosa significhi essere un popolo che unito chiede a gran forza l’Indipendenza ma dal basso, parlando di una Repubblica, di una democrazia per uno stato includente e “senza confini”.

La Catalogna oggi è l’anomalia del nostro continente, è l’anomalia nella Spagna della crisi economica che si fa sistemica, di uno Stato centrale che ancora oggi fa i conti con il passato, che ha visto – come ovunque in Europa – il crollo dei partiti della socialdemocrazia, che sta vivendo la ricomposizione in chiave reazionaria del principale partito al potere, il Partito Popolare, vittima di grandi scandali di corruzione e incapace di trovare una via d’uscita ai problemi di disoccupazione giovanile e di lungo periodo.

Oggi Barcellona è il centro dell’Europa

In questo panorama la Catalogna rappresenta da anni un’alternativa alla crisi e alle paure che nel Vecchio Continente stanno “vincendo”. Da queste parti un continuo lavoro sul territorio e una visione dal basso hanno permesso -nel giro di 10 anni- la pratica includente di una vita comune e di governo. Non a caso la provincia diffusa o le classi subalterne in crisi (vedi “gli operai”) non hanno scelto la “destra”, non a caso nella crisi economica la ricomposizione sociale ha premiato – alle elezioni di una metropoli come Barcellona – un sindaco (donna) che viene dai movimenti femministi e di occupazione delle case.

Contestualmente nella maggioranza del governo della Regione (o del futuro Stato?) è presente la CUP, l’organizzazione che fa riferimento ai comitati di quartiere e ai movimenti di sinistra di base, determinante per la maggioranza del governo Puigdemont.

E tutto questo perché la base più estrema e storica, quella degli anarchici o delle sedi sociali nei quartieri, ha costruito negli anni un sapere collettivo stringendo negli ultimi tempi un patto con organizzazioni politiche lontane anni luce da loro, che a loro volta sono state avvicinate da centinaia di persone comuni, dal millennial impolitico alla casalinga, dall’avvocato al professore universitario, dalla tabaccaia allo spazzino; il tutto coordinato nella centralità dei quartieri, dove si vive e dove – da vicini di casa – ci si organizza contro le speculazioni e il turismo di massa.

E così che – caso più unico che raro – dal 1° ottobre a oggi c’è questa “mobilizzazione sociale permanente che lavora con le istituzioni, per la prima volta un popolo intero sta andando a braccetto con i politici al potere per chiedere – insieme – un cambiamento.”

Foto di Jordi Elias Grassot / Alamy / IPA

Ecco perché oggi Barcellona è il centro dell’Europa, ecco perché la sensazione di vivere in un momento storico è viva ed ecco che non può esserci spazio per semplicismi sulla presunta irregolarità di un referendum osteggiato e poi represso dal governo centrale che è stato organizzato in maniera popolare, lo scorso 1 Ottobre, gestendo la distribuzione delle urne con un sistema clandestino di massa che trova le sue radici nella resistenza del popolo durante gli anni della Guerra Civile e del franchismo. Una resistenza e un’organizzazione che ho toccato con mano e che dire incredibile è dire poco.

È una risposta di popolo che non è borghese, la vera borghesia – quella dei grandi capitali immobiliari e finanziari – è stata la prima a fuggire in questi giorni, è la risposta democratica dei ceti popolari e di una piccola borghesia impoverita che da anni lavora – su temi come il sessismo, le differenze culturali, il lavoro, il caro-vita – a stretto contatto nei territori e nei quartieri con anarchici, squatter, associazioni. Una risposta che oggi si è fatta movimento di massa; frutto anche di una evidente distanza come società civile rispetto al resto della Spagna: “non più bravi o giusti, ma sicuramente diversi”.

Per questo si è arrivati a scegliere la strada che oggi si sta manifestando in tutta la sua potenza, chiedendo Indipendenza sulle basi di una cultura, una lingua, un fare comune che i catalani hanno sempre cercato di salvaguardare aiutati dallo status di regione autonoma ma che negli anni della crisi è tornata ad essere d’attualità, anche e soprattutto per le mancanze del governo centrale di Madrid. Oggi Indipendenza significa chiedere un modo di vivere diverso, significa credere in un progetto di società più democratica e inclusiva. Ma soprattutto rappresenta una frattura e una critica del modello costituzionale obsoleto del 1978.

Ed essere in questi giorni a Barcellona significa attraversare una città che ovunque parla di questo, che è ricca di produzione sociale, politica e culturale. Intanto, la risposta dello Stato Spagnolo è quella che sappiamo: quella della messa in pratica della legge 155 e la conseguente possibile chiusura delle radio e tv di stato catalane, del controllo della polizia autonoma e del commissariamento del Parlamento.

Foto di Jannis Werner / Alamy / IPA

In questi giorni “sospesi tra speranza e conflitto” ho potuto assistere all’organizzazione di base nei quartieri, alla manifestazione gigantesca dello scorso sabato, alle decine di capannelli di giovani e anziani che discutevano in luoghi informali, all’emozione di tante persone semplici o “politicizzate” che hanno negli occhi una determinazione che raramente si vede, almeno qui in Europa. E allora anche assistere alla messa laica dei catalani, la partita del Barcelona al Camp Nou, diventa un atto di mobilitazione permanente: il match di Liga contro il Malaga si è giocato infatti in un’atmosfera particolare mentre in contemporanea, a poche chilometri, una dichiarazione ufficiale del presidente Puigdemont si appellava non più ai governi ma ai popoli d’Europa.

Messi e compagnia sul campo hanno giocato la loro partita (vinta agevolmente) a tratti sovrastati dall’urlo impressionante che si alzava verso il cielo, un ruggito di 80000 persone che replicavano le parole d’ordine catalane di questi giorni: “independència” “libertat” e soprattutto quel “Els carrer seràn sempre nostres” (le strade saranno sempre nostre) inno dei movimenti anarchici e anticapitalisti, diventata la parola d’ordine principale di un intero popolo che si è messo in marcia.

Cosa succederà nelle prossime ore? Che il Governo Catalano proclamerà l’Indipendenza per poi indire elezioni? Che lo scontato voto positivo al senato di Madrid scaturirà in quello che tanti temono, una soppressione reale delle autorità catalane e dei media locali? Che si riesca a giungere a un accordo all’ultimo minuto non sembra possibile, non lo è nella narrazione mainstream e non lo è nemmeno per le persone con cui ho parlato e per le migliaia che ho incrociato nelle strade.

La paura è che il tempo giochi a sfavore, che la mobilitazione permanente venga fiaccata dalla Politica di palazzo o dall’ansia della repressione che si fa sempre più grande ogni giorno che passa. Ma nei volti c’è determinazione, coscienza critica e voglia di mettersi in gioco.

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