I figli americani dell'Isis | Rolling Stone Italia
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I figli americani dell’Isis

Tra i combattenti dello Stato Islamico ci sono molti ragazzi cresciuti nei Paesi Occidentali che lasciano le loro case per arruolarsi nel califfato. Abbiamo seguito la storia di tre ragazzi di Chicago

Sulla fronte del suo niqab, la ragazza a destra porta la Shahada, la professione di fede islamica. Illustrazione di Patrick Concepcion

Sulla fronte del suo niqab, la ragazza a destra porta la Shahada, la professione di fede islamica. Illustrazione di Patrick Concepcion

Nel giorno che aveva scelto per il suo viaggio sacro (Hijra) verso lo Stato Islamico, Mohammed Hamza Khan, 19 anni, si è svegliato all’alba nella sua casa di Bolingbrook, periferia di Chicago, ed è andato in moschea a pregare. Era sabato, il 4 ottobre 2014, una mattina inusualmente fredda. Entro sera sarebbe scomparso per sempre: avrebbe lasciato i genitori, gli amici e il suo paese per andare nella “terra benedetta di Sham” (la Siria, come aveva imparato a chiamarla) insieme a suo fratello Tarek e sua sorella Mariyam (nomi di fantasia, perché i due sono ancora minorenni, ndr). «Allahu akbar», aveva pregato con gli uomini della sua famiglia, cercando di scacciare ogni dubbio: «Dio è grande». Sua sorella Mariyam, 17 anni, intanto, stava finendo le preghiere in camera. «Ameen». Concluse le orazioni, aveva avvolto i capelli scuri in un velo nero e si era messa in attesa dei fratelli. Mariyam è una ragazza delicata, con due luminosi occhi neri, una pelle perfetta e un sorriso radioso che quasi solo la sua famiglia vede, perché indossa il niqab, il velo che copre il volto. Come sarebbe stato suo marito?, si chiedeva quella mattina, nell’attesa. Sognava un uomo bello e barbuto, come suo fratello Hamzah.

Gli uomini erano tornati dalla moschea poco prima delle sei. Mariyam aveva atteso che suo padre fosse tornato a letto e poi, in fretta, aveva messo qualche cuscino sotto le coperte per dare l’impressione che stesse dormendo. Poi, un veloce ripasso: vestiti (per cinque giorni), scarponi, calze calde, pettine, spazzolino, niqab, hijab, un Corano e due mascara Maybelline Great Lash (per non restarne senza). Si era infilata una tunica nera, una felpa a stampa leopardata (la sua preferita) e si era girata per l’ultima volta verso la sua camera. Poi, con la valigia in mano, era scesa giù per le scale ed era sgattaiolata con i fratelli fuori di casa e poi, in taxi, verso l’aeroporto. I tre fratelli Khan preparavano la fuga fin dalla primavera. Per mesi si erano accordati con quelli che credevano essere simpatizzanti dell’Isis in Siria (rintracciati online), avevano acquistato i passaporti, i visti e, solo una settimana prima, tre biglietti aerei per Istanbul (2600 dollari, pagati con i risparmi di Hamzah). Una volta atterrati in Turchia, il piano era: arrivare ad Adana dopo 12 ore di autobus, chiamare un numero che un affiliato all’Isis aveva dato loro «e poi boh, non saprei», ha ammesso più tardi Hamzah nel suo interrogatorio con l’Fbi.

 

Non è chiaro come Hamzah volesse rendersi utile allo Stato Islamico – e a dire il vero non lo sa nemmeno lui. Ha detto all’Fbi che si sarebbe offerto per «un ruolo di servizio pubblico» – consegnare il cibo, fare il poliziotto – o «forse di combattimento». Hamzah non ha mai preso in mano un’arma in vita sua e non ha mai sparato. Era mosso da un’ideologia semplice, fondata su due convizioni: voleva aiutare i musulmani e non voleva mai più tornare negli Stati Uniti. «È stato istituito uno Stato Islamico e ogni uomo e ogni donna in salute hanno l’obbligo di stabilirvicisi», ha scritto Hamzah in una lettera che ha lasciato per i suoi genitori: «Non posso ivere in un Paese in cui ho paura a esprimere ciò in cui credo».

Quando leggerete queste parole potremmo essere già stati catturati o uccisi

La lettera del suo fratello più giovane, Tarek, 16 anni, ha passaggi più duri: «Questa nazione è apertamente contraria all’Islam e ai musulmani». Le lettere un po’ si assomigliano, come se fossero state copiate da uno stesso modello. «Non posso restare qui mentre i miei fratelli e le mie sorelle vengono uccisi dal mio governo, con i soldi frutto del mio duro lavoro», ha scritto Hamzah. «Vivere qui è haram (peccaminoso)», ha scritto Tarek, che, come suo fratello – un fanatico della pizza che amava Comedy Central e Lil Wayne –, critica l’immoralità della società occidentale. Nelle loro lettere i tre fratelli hanno chiesto ai genitori di non chiamare la polizia. «Ci mettereste in pericolo», ha scritto Mariyam, «quando leggerete queste parole potremmo essere già stati catturati o uccisi. Questa è la cosa più difficile che abbia mai fatto».

Nel pomeriggio di quel 4 ottobre, appena dopo i controlli di sicurezza all’aeroporto internazionale O’Hare di Chicago, c’erano degli agenti federali in attesa dei fratelli Khan. Al gate della Austrian Airlines i tre sono stati chiamati da parte ed entro sera Hamzah era in arresto. Capo d’imputazione: «Aver tentato di fornire supporto, materiale e risorse» a una organizzazione terroristica internazionale. In una forma molto
semplice: se stesso. Se sarà giudicato colpevole passerà almeno 15 anni in prigione. Per il loro avvocato, Marlo Cadeddu, i fratelli Khan sono colpevoli al massimo di eccesso di fantasia: «Sono stati naïf, si sono lasciati rapire nel mondo fantastico dell’utopia islamica», dice: «È difficile essere un teenager musulmano praticante nell’America post 11 settembre e l’Isis riesce a giocare su queste insicurezze in un modo molto calcolato».

 

La comunità islamica di Chicago è una delle più vecchie e importanti degli States. I genitori dei tre fratelli, Shafi e Zarine, sono nati a Hyderabad, grossa città indiana, e sono stati naturalizzati cittadini americani. Seguono l’Islam deobandi, una corrente sunnita che esige una rigida osservanza della legge coranica e che tra i suoi seguaci conta diversi jihadisti tra il Pakistan e l’Afghanistan. Ma i Khan fanno parte di un movimento pacifista, che ritiene che la vera battaglia che ogni musulmano deve combattere sia quella spirituale. Quando è arrivato a Chicago con i suoi genitori, nel 1986, Shafi era un ragazzo alla buona sui 20 anni. Nel 1994 era tornato in India per combinare il matrimonio con Zarine, 21 anni, che allora era una studentessa universitaria di Hyderabad. Tornati a Chicago, i due si erano stabiliti in Devon Avenue, come molti altri immigranti indiani. Nel 1995 era nato il loro primo figlio, Hamzah, seguito nel 1996 da Mariyam, nel 1998 da Tarek e nel 2000 da un’altra sorellina. Per mantenerli, Shafi, che non aveva ancora finito il college, lavorava nel servizio clienti di una banca. Zarine, che aveva rinunciato alle ambizioni scientifiche per sposarsi e avere figli, insegnava part-time in una scuola elementare. Nel 2005, come molti altri musulmani pachistani e indiani, si erano spostati prima a Des Plaines, vicino all’aeroporto di Chicago O’Hare, e poi, dopo la nascita del quinto e ultimo figlio, nel 2011, a Bolingbrook.

In ogni famiglia c’era un bambino che almeno una volta era stato chiamato “Osama” o “terrorista” al parco giochi

La periferia ovest di Chicago ha un aspetto ordinario, è fatta da anonimi centri commerciali intervallati da case altrettanto anonime. Negli ultimi 10 anni, in questa zona, sono nate almeno 15 moschee e centri culturali islamici, che sono stati rapidamente assimilati nel solito panorama: una moschea, un 7-Eleven, un McDonald’s, una chiesa, un supermercato Walmart, un macellaio halal, un Taco Bell, una sinagoga, una palestra Planet Fitness. Ai Khan la zona piaceva, apprezzavano la gentilezza degli americani. Come Zarine ripeteva spesso, «il loro rispetto per il duro lavoro e per la vita». Ma non è che si sentissero del tutto a loro agio. Zarine era preoccupata dalla violenza nella cultura popolare. Quando si era rotto il televisore (ai tempi Hamzah aveva 8 anni) i Khan avevano preferito non sostituirlo. Pensavano che il computer avrebbe potuto prenderne il posto – anche se non lasciavano i figli liberi da soli: «Volevamo preservare la loro innocenza», ha detto Zarine al Washington Post.

L’11 settembre è arrivato quando Zarine e Shafi erano a Chicago da 7 anni. Hamzah aveva 6 anni, Mariyam 4. I Khan, sconvolti dall’attentato, avevano cercato di non seguire le notizie. Ogni tanto qualcuno si fermava a fissare Zarine, mentre faceva la spesa al supermercato. Considerato quello che era accaduto, pensava lei, era «comprensibile». Era normale sentire di amici fermati senza motivo all’aeroporto o di conoscenti che avevano subito complicazioni improvvise nei permessi per l’immigrazione. In ogni famiglia c’era un bambino che almeno una volta era stato chiamato “Osama” o “terrorista” al parco giochi. Tutti stavano all’erta: se qualche sconosciuto si univa alla preghiera del venerdì e iniziava qualche tiritera estremista, molto probabilmente era un agente dell’Fbi sotto copertura. I Khan avevano preferito iscrivere i loro figli in una scuola elementare islamica e poi nella College Preparatory School of America, un istituto che si pregia di offrire l’“eccellenza accademica in un ambiente islamico”. Anche Mohammad Chaudhry, un amico della famiglia Khan, ci ha mandato i suoi figli. Dice che la scuola ha dato loro i giusti valori islamici, «ma li ho iscritti lì anche per una questione di sicurezza. Non mi va che i miei figli vengano additati come terroristi». La famiglia Khan ha avvolto i suoi figli in un bozzolo stretto e amorevole. I bambini avevano ottimi voti, andavano volentieri alla scuola religiosa della moschea, si occupavano delle loro cose e restavano sempre gentili e servizievoli. La religione era al centro delle loro vite e cercavano di pregare cinque volte al giorno. Ma erano anche normali bambini americani, cresciuti con una solida dieta di cartoni, fumetti dei supereroi Marvel e storie per ragazzi. A Mariyam, che amava il cartone animato Muslim Scouts Adventures su MuslimVille.tv, piaceva anche la decisamente americana Kim Possible di Disney Channel. Hamzah adorava Batman, mentre suo fratello Tarek preferiva Wolverine. Fanatici degli anime, avevano tentato di imparare il giapponese, per poi crearsi un loro gergo finto giapponese che usavano come linguaggio segreto. A 10 anni, Hamzah aveva lasciato la scuola per un istituto di memorizzazione del Corano. Aveva passato due anni e mezzo a imparare 600 pagine in arabo, finché le frasi non avevano iniziato a uscirgli dalle labbra come se recitasse una poesia. Hamzah sapeva solo l’inglese e l’urdu, perciò non aveva una grande idea di cosa significassero quelle parole.

 

Tra i figli dei Khan, Hamzah era il più sensibile, un sognatore. Amava disegnare e aveva una sensibilità particolare per i bambini, tanto che era diventato tesoriere dell’Unicef per la sua scuola. Voleva diventare un pediatra per Medici Senza Frontiere, ma aveva presto capito che non avrebbe potuto resistere per gli otto lunghi anni di Medicina, perciò, dopo la high school, si era iscritto a Ingegneria e Informatica alla cattolica Benedictine University nel 2013. A ottobre del primo anno era già sotto pressione: «Esami di chimica e matematica uno dietro l’altro, ho bisogno di duas (preghiere)», aveva twittato un giorno.

Durante il college aveva iniziato ad ascoltare un po’ meno
i rapper come Waka Flocka Flame

Per Hamzah l’Islam era un mondo di saggezza infinita. Le sue regole e le sue origini lo intrigavano: nelle storie di Maometto, dei suoi compagni, dei sultani e dei califfi, Hamzah vedeva un’era più semplice, in cui tutti i credenti erano uniti. Durante il college, piano piano, aveva iniziato a fare sempre meno video divertenti con gli amici e ad ascoltare un po’ meno i rapper come Waka Flocka Flame. Nel 2014 aveva creato una pagina Tumblr chiamata “Guide illuminate del monoteismo”, dedicata a «post su eventi importanti e personalità islamiche dal periodo di Maometto [la pace sia con lui]». A volte postava anche delle sue poesie. Su Twitter era @lionofthed3s3rt (leonedeld3s3rto), giocando sul suo nome, che significa “leone”, e sui combattenti musulmani del Medioevo. Aveva iniziato a tenersi la barba come i prìncipi islamici. Visto che stava così bene, aveva messo su Google+ una sua foto davanti a casa, a mento alto, con lo sguardo rivolto verso un punto distante – la Mecca o un Burger King?

Mariyam era più decisa. Lettrice vorace, divorava tutti i best seller per ragazzi e passava ore a fare progetti. Avrebbe voluto essere un’astronauta, o forse una paleontologa o una chirurga. Come suo fratello, aveva imparato a memoria il Corano, memorizzando ogni passaggio avanti e indietro finché non riusciva a recitarlo in modo ineccepibile. «Mi piace che le cose siano perfette e voglio essere la migliore a farle», dice lei. Lo si sarebbe capito anche solo a guardarla, se solo si fosse potuto. Per quanto il niqab non sia generalmente richiesto, Mariyam (come sua madre) aveva scelto di usarlo per celare tutto, tranne la fronte e gli occhi.

Ora lo ammette con imbarazzo, ma per un po’ era stata ossessionata dai Linkin Park

 

In pubblico, Mariyam sembrava una muta appendice di Zarine, a cui restava sempre attaccata. A casa, dove si copriva solo i capelli, era una ragazza dinamica: ciarliera, con una curiosità vivace, a tratti ansiosa e lunatica. Era preoccupata per le guerre in Afghanistan e Iraq. Era angosciata dalle sofferenze dei musulmani, specialmente dei bambini. Si preoccupava anche delle cose della sua età: i capelli, la pelle, il peso. Ora lo ammette con imbarazzo, ma per un po’ – ok, tre anni – era stata ossessionata dai Linkin Park, di cui aveva imparato a memoria i testi – che poi scriveva dappertutto. Una passione ancora più segreta erano le ballad di Taylor Swift sui ragazzi – quei ragazzi che erano rigidamente proibiti nell’interpretazione dell’Islam che seguivano i suoi genitori. Poteva ancora ridere, scherzare, andare in bicicletta con i suoi fratelli, ma, da quando era entrata nella pubertà, poteva farlo solo con loro.

Non che la cosa le pesasse molto, perché, a dire il vero, Mariyam era incredibilmente timida. Il niqab era il suo scudo, dietro al quale poteva osservare senza dover interagire. La timidezza, insieme all’innato perfezionismo, avevano generato un’ansia che si era manifestata quando aveva finito di studiare il Corano: aveva perso tutta la middle school, per quanto avesse cercato di mantenersi al passo ricorrendo all’homeschooling. Tutti i tormenti della prima adolescenza – le migliori amicizie, le rivalità, le inutili gelosie – le sono passati a fianco, senza sfiorarla. Perciò aveva chiesto a sua madre di non farla tornare a scuola. «Le ripetevo: “Non farlo, aver saltato la high school ti mancherà quando sarai al college, te ne pentirai», ricorda la madre Zarine.

Studio a parte, passava le sue giornate a cucinare dolci, disegnare e guardare video su YouTube. Aveva sviluppato una passione per il make-up arabico, che sperimentava in camera sua, sempre pronta a struccarsi prima che qualcuno potesse vederla. Non l’ha mai ammesso, ma la solitudine era straziante. Dopo un po’, persino una visita con sua madre al Walmart era diventata eccitante.

E poi, a 16 anni, Mariyam aveva iniziato a cambiare. Aveva smesso di ascoltare musica, di guardare gli anime e di leggere romanzi. Le interessava solo della religione. Mentre i suoi fratelli erano a scuola o al lavoro sui progetti di Scienze, lei finiva in fretta i compiti per rintanarsi in un angolo a leggere gli hadith, i racconti di seconda mano degli insegnamenti e dei proverbi di Maometto. I suoi eroi erano persone come Muhammad al-Fatih, Muhammad bin Qasim e Saladino – tutti guerrieri musulmani che si erano impegnati nel jihad. Il termine jihad si riferisce a due concetti distinti: il grande jihad, che è la lotta quotidiana per vivere una vita integra, e il jihad minore, che non è solo guerra esistenziale o spirituale. «Quando qualcuno parla del jihad, gli uomini guardano da un’altra parte, abbassano lo sguardo o ti attaccano», si lamenta Mariyam nelle sue meditazioni private, in cui dice che gli uomini della sua comunità sono “codardi” e le donne sono “egoiste”.

Parlano del Corano, di anime, della Siria mentre si scambiano le immagini di leoni

 

Ci sono migliaia di ragazzi come Mariyam o Hamzah su Twitter e Facebook. Parlano del Corano, di anime, delle ultime atrocità della Siria mentre si scambiano le immagini di leoni, dinosauri, cuccioli di tigre o i loro fratellini. Vengono da posti come Bolingbrook: Perth, Cardiff, Manchester, Portsmouth, i ghetti degli immigrati di Londra o città come Parigi, Berlino, Bruxelles, Minneapolis, Denver. Sono nati in quei posti, ma non si sono mai sentiti pienamente americani, inglesi o australiani – né totalmente musulmani, o almeno non quei leoni della fede che credono di dover essere. Mariyam trascorreva buona parte della giornata da sola, «a pensare» o a scrivere su Ask.fm.

Aveva scoperto Kalamullah.com, un sito inglese che aggrega diverso materiale islamico. Ci si trovano le prediche degli imam più radicali così come le informazioni di gruppi umanitari o le notizie dalla Siria – che anche lei aveva iniziato a chiamare con l’arabo Sham. Dal 2013 aveva iniziato a seguire la causa, unendosi a campagne di hashtag per la liberazione di prigionieri musulmani o retwittando foto di vittime di violenze nel Medio Oriente. Era influenzata dalle visioni espresse su alcuni forum islamici: i musulmani sciiti sono “apostati”, gli imam più noti “hanno annacquato la religione” e sono diventati “noci di cocco”: scuri all’esterno, ma bianchi dentro. L’Isis lanciava la sua campagna di immagini brutali in giro per il mondo, ma i credenti come Hamzah e Mariyam vedevano un messaggio diverso. Istituendo il califfato, il leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi stava realizzando il sogno di generazioni intere – Osama bin Laden incluso, che lo pensava come un obiettivo a lungo termine, che si sarebbe potuto raggiungere dopo diverse generazioni.

I social network, per Mariyam, erano qualcosa di più che per i suoi fratelli: erano la sua voce. In una vita piena di regole, Internet era il posto in cui poteva essere chiunque volesse essere: una brava musulmana, una paladina della difesa degli oppressi che era libera di confrontarsi con un sottobosco di persone, spesso uomini, che nella vita reale non avrebbe potuto nemmeno guardare. Li cercava su Twitter, seguendo le bandiere nere del jihad sui loro avatar, o i loro nomi di battaglia – “Abu” per gli uomini, “Umm” per le donne, seguiti spesso dalla nazionalità: al-Amriki per gli americani, al-Britani per i britannici. Discutevano a lungo di jihad, dell’ultimo video dell’Isis e, se eri fortunato, potevi trovare qualche reclutatore che ti inviava i suoi contatti per continuare la conversazione più al sicuro su Kik o Surespot. Per entrare in confidenza bisognava dimostrarsi fedeli alla causa, una cosa che Mariyam aveva fatto – ad esempio, scrivendo un tweet in cui a un video dell’Isis con torture e decapitazioni seguivano le emoticon di un cuore e di uno smiley.

Doveva davvero andare in Siria o bastava simpatizzare per l’Isis da casa? L’aveva chiesto online
a uno jihadista britannico

 

I simpatizzanti dell’Isis che parlano inglese hanno un loro codice. Chi è riuscito ad arrivare in Siria è “on the haqq”, sta vivendo la verità. Andare in Siria è fare un’hijra, il viaggio sacro, come quello di Maometto e i suoi a Medina (una migrazione obbligatoria per tutti i credenti che vivono in un Paese che li opprime). Sham è la grande Siria, ma non solo: come Mariyam avrebbe imparato poi, è il raduno dei migliori sulla Terra. È la terra dei martiri, che volano in Paradiso (Jannah) come uccelli verdi – #greenbirds è un hashtag molto usato su Twitter –, planando tra gli alberi e mangiando frutti prelibati. È una delle ragioni per cui i martiri muoiono sorridendo. È un messaggio che si è fatto strada sui social network, dove si trovano foto di morti che sorridono beati, spesso accompagnate da didascalie su come i loro corpi profumino di muschio o sanguinino per giorni. I martiri non si decompongono. È uno dei tanti miracoli che accadono in Siria: ci sono alberi che danno sempre frutti, palle di mortaio che cadono a terra senza esplodore. Uno jihadista ha scritto che, nonostante la carenza di igiene, i suoi vestiti e il suo corpo restano sempre puliti.

Sono alcuni dei prodigi raccolti in un e-book, Miracles in Syria, dove si racconta anche la storia di un ragazzo di Manchester, Abu Qaqa, arrivato per combattere nel settembre 2013. Ottimo conversatore, presidia (lui o chi per lui) Twitter, Tumblr e Ask.fm, dove, insieme a un altro britannico, Abu Fariss, è la voce non ufficiale dell’Isis in inglese. Sia Hamzah che Mariyam avevano parlato con Abu Qaqa in chat private su Kik. Su Twitter, Mariyam dialogava anche con un altro estremista, Abu Hud, noto come “il paladino del jihad”, autore della serie Tumblr #DustyFeet (piedi impolverati, ndr), che è diventata una sorta di guida Lonely Planet per chi si prepara a combattere in Siria: viaggia leggero, consiglia Abu Hud, porta con te calzini pesanti, caricabatterie a energia solare, lascia a casa i computer («sono più sospetti di tablet e cellulari»). Ogni tanto invita i suoi follower in sessioni di domande pubbliche, dove “andare in vacanza” sta per andare in Siria.

Mariyam sapeva che non l’avrebbero mai fatta combattere. Lei, a quanto aveva capito, avrebbe dovuto crescere una nuova generazione di mujaheddin, nel ruolo di madre e moglie. I suoi movimenti sarebbero stati limitati: le donne dell’Isis non lasciano casa senza un uomo di guardia o senza muoversi in gruppo col permesso dei mariti. Ma la sua vita a Chicago, in fondo, non era molto diversa. Forse in una città come Raqqa sarebbe stata addirittura meglio: c’era un’intera comunità di sorelle ad aspettarla, una serie di amiche pronte all’uso. E tutte – a quanto poteva capire dalle sue chat – sotto i 25 anni.

 

I suoi fratelli l’avrebbero accompagnata. Il più vecchio, Hamzah, era combattuto: da una parte, come avrebbe scritto ai genitori, era «deciso a portare buona parte della famiglia nella terra dell’Islam», dall’altra si chiedeva se l’hijra sarebbe stata davvero necessaria. Doveva davvero andare in Siria o bastava simpatizzare per l’Isis da casa? L’aveva chiesto online a uno jihadista britannico, Abu Baraa, che aveva risposto: non è un obbligo, ma vivere un giorno in obbedienza al califfo «è meglio che vivere e morire nell’ignoranza». I Khan sono una famiglia molto unita, lasciare i genitori si stava rivelando straziante. Giorno dopo giorno, all’insaputa di mamma e papà, i tre fratelli ricevevano l’incoraggiamento di Abu Qaqa, Abu Fariss e degli altri loro nuovi amici. «Non twittate sullo Stato Islamico o sul jihad, non ditelo ai vostri amici, non ditelo ai vostri famigliari», aveva scritto Abu Fariss sulla sua pagina Ask.fm. State attenti online, ma anche nella vita vera.

Abbiamo provato a crescerli
al meglio: gli abbiamo dato l’educazione migliore,
i migliori valori

Si decisero a partire. Seguendo i consigli ricevuti online, i tre fratelli avevano preparato in silenzio i sacchi a pelo, qualche snack e, la sera prima di partire, si erano messi a scrivere delle lettere ai genitori. Mariyam, da brava perfezionista, ne aveva scritte due. «Non pensavo che lasciare la famiglia sarebbe stato così duro, soprattutto con due genitori come voi», aveva scritto nella nota più onesta. «Il mio cuore piange al solo pensiero che forse non vi rivedrò mai più… vi amo più del mondo intero, ve lo giuro».

Dire che gli ultimi mesi per i Khan sono stati un incubo sarebbe un eufemismo. Quando li ho incontrati per la prima volta, nell’autunno 2014, si erano dimostrati confusi, come se qualcuno fosse entrato in casa loro e avesse rubato le menti dei loro figli. «Abbiamo provato a crescerli al meglio: gli abbiamo dato l’educazione migliore, i migliori valori», mi dice Zarine, la madre, mentre suo marito prende degli oggetti da un sacchetto e li mette sul tavolo: sono la medaglia di una manifestazione scientifica vinta da Hamzah, il trofeo per la memorizzazione del Corano, una targa per il concorso interscolastico musulmano. Mi mostrano un bellissimo disegno floreale di Mariyam, mi parlano della passione di Tarek per i Chicago Bulls. Com’è potuto accadere? Avevate notato niente di strano? Se si esclude il tempo in più passato al computer la risposta è sempre “no”.
A dirla tutta, Zarine sapeva poco o nulla dell’Isis fino a che i suoi figli non sono stati fermati all’aeroporto. «Purtroppo il tipo di Islam con cui molti genitori si trovano a loro agio tende a evitare ogni tema delicato», mi dice Yasir Qadhi, religioso musulmano e professore del Rhodes College di Memphis. Questa mancanza di comunicazione, sommata all’incapacità di stare al passo con le nuove tecnologie, ha creato una frattura profonda tra le generazioni. Ora come ora, Hamzah Khan deve fare una scelta: dichiararsi colpevole e avviarsi verso una pena forse minore o continuare a sostenere la tesi che stesse solo compiendo la sacra hijra e vedere se in tribunale qualcuno gli crederà. Ma, come ammette il suo stesso avvocato, nessun imputato coinvolto in un caso legato al terrorismo è mai stato pienamente assolto dall’11 settembre a oggi.

Torno a casa dei Khan qualche sera dopo il nostro primo incontro. Shafi, un uomo pacato vestito con una tunica e semplici pantaloni blu, mi apre la porta e mi fa strada verso il soggiorno, dove Zarine, capelli raccolti da un hijab bianco e nero, ha preparato pollo fritto, patatine e succo d’arancia. Shafi, che ha lavorato per anni come organizzatore di eventi per associazioni caritatevoli islamiche, ha da poco perso il lavoro e la famiglia fatica ad andare avanti. Vicini e amici hanno espresso il loro sostegno, dice Zarine, ma si tengono a distanza. «Sono spaventati. Come se pensassero: “Se hanno fatto il lavaggio del cervello a quei bravi ragazzi chissà cosa potrebbe succedere ai nostri”».

 

Nella stanza ci sono i segni della crescita: i divani hanno qualche macchia di pennarello, ci sono un triciclo di plastica, dei giocattoli Fisher-Price e libri illustrati. In una libreria massiccia sono allineati testi islamici e libri di scuola dei figli più grandi: Inglese, Economia, Biologia. In un angolo, su uno dei ripiani bassi, c’è un piccolo – e nuovo – televisore. Mariyam è seduta sul divano. Ha un’aria eterea, veste una shalwar kameez, la tunica-pantalone molto usata in Asia del Sud. Mi racconta con la più soffusa delle voci quello che una volta le piaceva: i film, lo shopping, pattinare sul ghiaccio – tutte cose che ha rimpiazzato con la religione, che ancora consuma molti dei suoi pensieri. «Posso sedermi in un angolo e leggerne e studiarne per giornate intere», dice. Al contrario di Hamzah, Mariyam e il fratello minore non sono ancora stati accusati di nessun crimine. Ma potrebbero esserlo presto, dice il loro avvocato. Il governo americano potrebbe dimostrare che offrire il proprio corpo a un gruppo terrorista sia, a tutti gli effetti, quel “supporto materiale” che serve per condannarli.

Voi siete leali al vostro Paese anche quando fa cose cattive

La loro legale ha lavorato per mesi per reintegrarli nel mondo reale. Ha iscritto Mariyam al test per il diploma della high school, che ha passato con lode, e l’ha messa in contatto con una psicologa musulmana. Poi, cosa più importante di tutte, ha insistito per farla incontrare con un religioso islamico che ha messo in discussione la sua lettura del Corano e l’interpretazione che l’Isis dà della religione. Di recente, Mariyam ha iniziato a parlare con una famiglia che ha prestato aiuto umanitario in Siria e che le ha raccontato cosa ha visto nel Paese. «Tutti questi incontri mi stanno offrendo più punti di vista, mi stanno aprendo la mente», dice lei. Tutto questo, però, potrebbe non risparmiarle un processo. Lo scorso 26 febbraio, l’Fbi ha perquisito la casa dei Khan per la seconda volta e gli agenti se ne sono andati con scatole di oggetti di Mariyam e di Tarek. Non hanno detto che cosa stessero cercando, ma basta fare un giro sull’ex profilo Twitter di Mariyam, @deathisvnear, per trovare un commento sul profilo di un noto jihadista su Ask.fm. Il post è stato fatto prima che lei iniziasse il suo percorso di de-radicalizzazione, ma comunque dopo che i tre ragazzi erano stati fermati dalla polizia. All’aeroporto internazionale O’Hare, l’Fbi ha interrogato Mariyam per otto ore. La trascrizione di quel botta e risposta dimostra quanto il condizionamento dell’Isis sia potente: davanti all’Fbi, l’infinita timidezza di Mariyam scompare. «Perché vuoi parlare con quelli? Sono mostri», le aveva detto uno degli agenti.

«Io no», aveva risposto lei. «Ma è gente che fa decapitazioni», l’avevano incalzata. «Sì, ma perché pensate che lo stiano facendo?». Una dopo l’altra, Mariyam aveva elencato le sue recriminazioni: gli Stati Uniti e i loro alleati stanno uccidendo bambini innocenti in Paesi come Siria e Afghanistan, ma questo va bene finché a farlo non sono i musulmani, che stanno cercando di difendersi. «Voi siete leali al vostro Paese anche quando fa cose cattive», aveva concluso.

 

«Ma qui non stiamo parlando di me e del mio Paese», le aveva risposto un agente, «Stiamo parlando di te». «Mi state interrogando!». Oh, no, le avevano assicurato. Un vero interrogatorio sarebbe stato molto peggio. «Staremmo urlando molto forte, qualcuno avrebbe lanciato delle cose in giro. Ti farebbe paura». «Sì, so cosa fate a molti», aveva risposto lei. «Non lo stiamo facendo a te». «Ma lo fate ancora… Si sentono un sacco di storie». «Ok, lo ammetto, sì. Trattamenti di questo tipo sono ancora applicati».

«Li userete su di me. Non ora, ma li userete».

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