La storia di Davide: dall'Italia alla Siria per combattere l'ISIS (parte uno) | Rolling Stone Italia
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La storia di Davide: dall’Italia alla Siria per combattere l’ISIS | II parte

Partito da Torino per combattere in Siria dopo l’attacco al Bataclan, Davide è tornato per raccontare la guerra vissuta in prima linea

La storia di Davide: dall’Italia alla Siria per combattere l’ISIS

«Siete sotto attacco a Raqqa è perché siete oppressori di tutti le genti. Combattete da soldati contro soldati se ne siete capaci». Davide – partito per la Siria a combattere contro l’ISIS – ha voluto commentare così l’attentato di Londra, un’altra metropoli nel cuore dell’Europa che è stata colpita come accaduto a Berlino, a Bruxelles e nel novembre 2015 a Parigi. Proprio la carneficina del Bataclan è stata la molla che ha spinto Davide ad andare a combattere contro ISIS nel 2016. L’ho incontrato nella sua città e in una lunga chiacchierata abbiamo provato a ragionare sul pericolo delle guerre, sul nemico, sulla brutalità del conflitto e sull’importanza per ognuno di noi di informarsi e informare su quanto nel mondo sta accadendo.

Qual era il tuo nome di battaglia?
Tirej Gabar. Tirej significa Raggio di Luce, Gabar è una montagna che si trova al confine con l’Iraq. Ma Gabar era anche il nome del mio amico Jemie Bright, caduto sul campo di battaglia di Shaddadi lo scorso maggio

Dove hai combattuto?
Sono stato sul fronte di Raqqa e ho partecipato all’offensiva di Manbij nel luglio 2016 a nord di Aleppo.

Con chi hai combattuto?
Ho combattuto in una formazione curda – legata all’esercito popolare dello YPG, le Unitù di Protezione Popolare – ma c’erano anche arabi all’interno, in quell’esercito finita l’educazione uno può scegliere dove andare a combattere, io ho chiesto di essere assegnato a un’unità esclusivamente curda-araba.

Contro chi hai combattuto?
Contro l’ISIS. Prima a Raqqa, poi nella battaglia urbana per riprendere Manbij e ovviamente questa è stata l’esperienza più traumatica.

Davide durante i combattimenti in Siria

Come era la battaglia di liberazione di Manbij (la città che tanti di noi conoscono per le foto di donne e uomini felici e nel luglio 2016 liberi dopo 3 anni di tirannia dei miliziani, ndr)?
Dormivo due ore a notte ma avevo un livello di adrenalina nel corpo talmente alto che non pativo, in quel contesto il corpo si trasforma. Quella di Manbij era una battaglia strada per strada, è stata un esperienza orribile. Per tutto. Per prima cosa il livello di violenza inaudita e gli amici morti nelle nostre fila. E poi la guerra siriana è sporca, l’ISIS usa mine e trappole esplosive. Nella fase cruciale, nel giro di 24 ore penso di aver avuto per 3 volte l’oggettiva certezza che sarei morto. Ma il fatto è che ti cambia la vita quando vedi cosa è davvero una guerra. Quando pensi alla guerra pensi che sia brutta ma non sai quanto, lo sai perché lo leggi sui libri, guardi i film, ma poi sul campo è un vero disastro. Sul terreno ci sono migliaia e migliaia di ragazzi che letteralmente combattono come se fossero nella preistoria. Carneficine e situazioni che la gente non si immagina nemmeno.

Di solito la morte non è una cosa che ti succede, ecco in guerra spesso sembra che te la vai a cercare

Qual è la sensazione che percepisci in guerra da civile in armi?
Fare delle cose al limite del suicidio, capire che la vita non conta davvero nulla. Vai, combatti e pensi “ma questo è un suicidio”, la guerra è sempre stata così poi…. La guerra significa mandare la gente al macello, nel senso che le potenze internazionali giocano con le vite di milioni di persone. L’idea di morire da li a pochi minuti, l’idea di suicidarsi – ad esempio – è una realtà quotidiana che la guerra ti impone. Io mi sono trovato circondato per ore sul tetto di una casa e dopo che tre razzi rpg ti ‘bussano’ alla porta devi avere la freddezza di preparare il colpo in canna e la granata per farti esplodere per portarti i nemici con te. Così ha dovuto fare un mio amico inglese Ryan Lock, a Raqqa. Di solito la morte non è una cosa che ti succede, ecco in guerra spesso sembra che te la vai a cercare.

Qual sono i fattori decisivi per tornare salvo a casa dopo una guerra del genere?
Il destino, il fato. Ma soprattutto mantenere la disciplina, non ci devono essere deroghe alle norme di prudenza e autoprotezione. Molte persone sono morte perché sono state lassiste nell’attenzione.

Ti sei sentito trasformato dopo la guerra?
Mi sono sentito traumatizzato, dopo l’offensiva per entrare in città certamente non ero quello di prima, dopo di che nell’offensiva continuavamo a combattere, non c’era modo di immagazzinare ricordi o sensazioni, la cosa davvero orribile è rendersi conto di com’è la quotidianità di centinaia di migliaia di persone in giro per il mondo sia quella. Ti rendi definitivamente conto che l’Occidente vive in una bolla e non ci rendiamo conto di quanto è montante l’odio in certi popoli, viviamo in una dimensione surreale e ovattata dall’ignoranza più totale. Per cui poi appariamo anche estremamente inumani e freddi all’esterno. La massa – non solo gli Stati – degli occidentali oramai viene vista come irrecuperabile da molti e si diffonde l’idea, per alcuni, di doverci attaccare. Pensa a come devono aver preso l’elezione di Trump nel mondo musulmano. Le persone occidentali comuni sono viste come odiose e la cosa sta montando, il gioco dei potenti è fare della Siria un terreno di scontro senza spiegare alla gente comune cosa realmente succede.

Qual è la cosa più evidente di questa pazzia della guerra in Siria?
Pensa a questa generazione di arabi e curdi, si vede lì sul campo quanto è orribile ciò che vive e quanto sia davvero una catastrofe umanitaria. E poi dall’altra parte è palese il gioco degli Stati, del potere. Oggi la Siria è la dimensione perfetta e si vuole capire la gerarchia del potere: un pilota statunitense, inglese o francese bombarda dall’alto un palazzo e se ne torna tranquillo alla base, ma magari intorno decine di siriani muoiono combattendo sulla strada e decine sono mutilati. Queste azioni, questa differenza di armamenti e di consuetudine della guerra, questa differenza tra cielo e terra, questa differenza tra popoli, li è percepita moltissimo, è odiata da tutti, non è accettata e veniamo visti con disprezzo per le responsabilità dei nostri governi.

È una frattura che mi pare si stia ampliando sempre di più, anche perché in Occidente soffia un chiaro vento reazionario
Io ho girato in Palestina, Iraq, Turchia e poi ho combattuto in Siria. Ho fatto reportage e intervistato dozzine di persone. Posso dire con tranquillità che laggiù oramai ci disprezzano, ci considerano spesso moralmente irrecuperabili per la nostra indifferenza. Ci si deve porre il problema di come risolvere questo punto, come recuperare questo divario, perché dall’altra parte oramai da anni l’ISIS lavora per ampliare la spaccatura, “andiamo a Berlino a Nizza a Parigi e uccidiamoli come cani e poi torniamo in Siria e facciamo vedere che anche loro soffrono come noi” e questo odio diventa sempre più incolmabile. Soprattutto non ci conviene fare troppo i furbi, ci conviene invece informarci, capire la situazione e cercare di fare in modo che i nostri governi cambino il loro ruolo e le scelte politiche altrimenti noi possiamo restare nella nostra torre d’avorio ma quando la rabbia monta troppo, va a finire male.

Una foto scattata da Davide durante i giorni in Siria

Qual è stato il percorso che ti ha portato, non solo ad interessarti del Medio Oriente, ma addirittura scegliere una cosa così estrema?
Mi è sempre interessato quello che succede del mondo, quello che vivevo da adolescente in una città di provincia era l’immaginario di George Orwell in Omaggio alla Catalunia o la storia internazionalista di Che Guevara. Ho partecipato a tante lotte in Italia- contro il Tav ad esempio – ma non mi piace l’etichetta del militante. Io ho sempre avuto la passione per la musica, hard-rock innanzitutto, sono anche stato chitarrista, ma anche altro, tipo vado tuttora ad una serata con Gigi D’Agostino che per me e i miei amici è un must generazionale. Ho avuto sempre una personalità rivolta alla musica e mi interessa quello che succede nel mondo. Ho suonato in un gruppo e avendo vissuto – per studio – a New York e a Parigi, ho sempre vissuto in maniera libera, vivendo la notte, i locali. La mia vita – se vogliamo parlare di “stile” di vivere – è fatta di scelte consapevoli che mi facciano vivere nell’indipendenza, nella libertà.

La cosa che mi ha fatto scattare è stato il Bataclan, perché lì è stata colpita la mia generazione, la generazione Erasmus

E poi cosa è successo nel 2015?
Poi è arrivato il novembre 2015 e gli attacchi di Parigi. Io già odiavo l’ISIS. Ma la cosa che mi ha fatto scattare la molla è stato il Bataclan, perché lì ho visto che è stata colpita la mia generazione – la generazione Erasmus – sono andati a braccare le persone in certi luoghi che vivono la notte, che escono, che ascoltano musica, che magari si riconoscono in un certo modo di vivere il mondo, di essere aperti, di vivere le proprie esperienze in maniera aperta, farsi le canne, baciarsi in pubblico, non fare distinzioni tra etero e gay, tra europei e migranti, l’andare ai concerti… Però quella notte è arrivato qualcuno che ha detto che quelle cose sono sbagliate e io mi sono accorto che era un incubo, che c’è chi crede che può togliere vite e imporre una vita diversa da quella che conosciamo. Io sono uno che va allo stadio, va ai concerti, vive la città. Quella notte ho realizzato che loro a Parigi cercavano pure me. E davvero io l’ho fatto per la libertà, per la musica! Nello Stato Islamico è proibito avere strumenti musicali, ascoltare musica. Ho conosciuto ragazze in Iraq che ascoltano gli stessi pezzi che sentiamo nelle nostre radio, ma a Mosul un quindicenne è stato decapitato dall’Isis perché ascoltava musica pop. Tu pensa che follia. Questi (l’ISIS ndr) hanno proibito l’uso delle sigarette, sono entrati così tanto nella sfera personale di quei piccoli piaceri della vita che nella quotidianità ti alleviano i problemi sul lavoro, sullo studio, sui soldi…. Mi ascolto l’ipod mi fumo uno sigaretta…proprio queste cose che noi diamo per scontate li non lo sono, anzi sono proibite. E non credo che nessuno di noi possa giustificare queste cose. Una concezione demente della vita.

E quindi che hai pensato?
Ho pensato: se questi son venuti qui, allora ci sarà qualcuno che andrà a combatterli. La cosa che di cui mi son accorto è che questa dimensione di disprezzo per i miliziani dell’Isis la ritrovavo tra i miei commilitoni e altri internazionalisti. Nessuno mi deve insegnare come vivere e per questo ho deciso di andare laggiù. Anche mentre combattevo, quando li avevamo a pochi metri gli urlavamo “questo non è il Bataclan”, perché è facile sterminare persone inermi altra cosa invece è combattere.

E gi altri internazionali? quanti sono e che differenze noti tra te e loro?
Sono centinaia, ci sono tante persone che sono arrivate mentre ero li a causa degli attentati in Europa. All’inizio c’erano molti australiani, inglesi e americani che hanno una cultura più liberale e militare, poi pian piano molti europei, civili, politicizzati (in senso comunista e libertario) che arrivavano a gruppi. C’è poco da fare, per molti francesi dopo quello che hanno fatto a Parigi o a Nizza è comprensibile che uno dica “ora vado li e li ammazzo”, magari ne parte uno, ma sono sicuro che ce ne sono mille dietro a dargli il proprio appoggio.

(Troverete la seconda parte dell’intervista domani sempre su RollingStone.it)