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Sono una donna e oggi volevo il mio bus

Sciopero dell’8 marzo: perché paralizzare le città non è esattamente “femminista”

Sono una donna e oggi volevo il mio bus

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Prima, i fatti. Oggi, in occasione della festa della donna, i sindacati USB, l’USI e i Cobas hanno indetto uno sciopero generale di 24 ore in sostegno dello “sciopero globale delle donne”, indetto in Italia dal movimento femminista Non Una Di Meno contro la violenza maschile, la violenza economica, la precarietà e le discriminazioni di genere. L’astensione dal lavoro riguarderà molti settori, sia nel pubblico che nel privato, e causerà parecchi disagi in particolar modo nel trasporto pubblico: con modalità e orari diversi da città a città incroceranno infatti le braccia i dipendenti delle società di trasporto locale e nazionale «perché la lotta contro ogni discriminazione di genere e ogni forma di violenza maschile sulle donne è parte sostanziale della lotta complessiva del sindacato».

«In tutte le città d’Italia – ha annunciato USB – ci saranno azioni, picchetti, piazze tematiche, presidi durante la mattina e cortei pomeridiani» per «uno sciopero contro la violenza maschile sulle donne, contro la mancanza di finanziamenti e riconoscimento dei Centri Antiviolenza, contro la chiusura degli spazi delle donne, contro l’obiezione di coscienza nei servizi sanitari pubblici» e per rivendicare «il diritto a un welfare universale, al reddito di autodeterminazione, alla casa, al lavoro, alla parità salariale, all’educazione scolastica, a misure di sostegno per la fuoriuscita dalla violenza».

Ricapitolando, niente autobus, tram, metropolitane (in alcune città), treni, aerei e taxi, in una giornata che – nonostante sia stata pensata a favore delle donne – si rivela drammaticamente contro di loro. Un interessante articolo pubblicato dalla rivista MicroMega quattro anni fa si interrogava a lungo sull’efficacia dello sciopero, definendolo «un’arma spuntata che rischia di avvantaggiare la controparte (…) Nel settore pubblico, gli scioperi danno tradizionalmente una mano alle casse dello Stato. Poco importa se un blocco dei servizi danneggia i cittadini». Non è certo questa la sede per addentrarsi in complicate analisi socioculturali ed economiche circa la validità e il potere di tale forma di protesta, ma piuttosto di riflettere su come l’iniziativa organizzata da Non Una Di Meno e appoggiata dalle sigle sindacali rischi di trasformarsi in un’azione (paradossalmente) discriminatoria.

Metto le mani avanti: pur non riconoscendomi in questa forma aggressiva e litigiosa di “femminismo sessantottino”, non voglio minimamente sminuire la gravità di un tema – la violenza nei confronti delle donne – che oggi come non mai ha risvegliato le coscienze, inserendosi di diritto in un dibattito a livello globale. Mi risulta però di non facile comprensione come lo sciopero possa essere considerato una forma di lotta concreta alla violenza economica nei miei e nei nostri confronti. Paralizzare intere città, rendendo difficile, se non impossibile, raggiungere l’ufficio, portare i figli a scuola, andare a prenderli, sottoporsi a una visita medica, fare una semplice commissione, non è femminista, è solo molto stupido e cieco. Non tutti possono o vogliono scioperare: chi decide di non aderire «all’insorgenza contro la violenza patriarcale e neoliberista» viene, di fatto, discriminato, perché messo nella condizione di non poter svolgere il proprio lavoro (e dunque di dover rinunciare al compenso che gli spetta). Della serie, un cane che si morde la coda.

Ho espresso le mie perplessità in merito alla questione in un post su Facebook, ricevendo diversi messaggi di appoggio e consenso, finché un’esponente di Non Una Di Meno si è sentita punta sul vivo e ha iniziato ad accusarmi di «non avere una solida coscienza sociale» e di lasciare che il mio interesse personale (ergo, la necessità di portare a termine un lavoro previsto per l’8 marzo) pregiudicasse la mia «idea di sciopero come strumento di dissenso e di rivendicazione». La proposta alternativa che avanzavo, permettere alle donne di viaggiare gratis sui mezzi, è stata tacciata come «ingiusta, perché ci fa apparire come una casta da proteggere», e la messa alla gogna terminava con una critica che ritengo falsa e pesante, ossia di rientrare in quella cerchia che ancora «fa finta di non vedere il problema della violenza».

Eccoci, ci risiamo. Ciò che trovo respingente nei “nuovi” movimenti femministi è proprio la totale incapacità di ammettere il contraddittorio e, di fronte a esso, di reagire rimproverando e calunniando coloro che osano non trovarsi d’accordo con le modalità con cui alcune iniziative vengono messe in atto. Nel caso specifico, il problema legato alla violenza – sia essa fisica, psicologica o economica – mi è ben chiaro, e sono la prima a battermi per contrastato in ogni modo possibile, ma allo stesso tempo rimango convinta che non sarà uno sciopero a cambiare lo status quo, anzi. Siamo sicuri che i conducenti che incroceranno le braccia lo faranno per solidarietà verso i princìpi delle discriminazioni di genere? Siamo sicuri di voler interferire sulle normali attività delle donne che non aderiranno alla manifestazione, rallentandole e costringendole a faticare il doppio? È davvero così “offensiva” una gratuità per agevolarle nel giorno a loro dedicato? Siamo sicuri non esistano altri mezzi, oltre a uno sciopero, per portare avanti delle istanze non solo legittime, ma doverose, quali la parità salariale e i finanziamenti ai Centri Antiviolenza?

La verità è che parlare di donne, oggi, sta diventando un terreno minato con pericolose derive. Partendo dalla completa demonizzazione maschile, che vuole tutti gli uomini violenti per tendenza o per cultura, fino ad arrivare alle denunce di presunta “complicità col patriarcato” ogniqualvolta si tenti di valutare un prodotto femminile – sia esso un libro, un film, una serie tv o un articolo – che non meriti di essere glorificato o, semplicemente, non piace. Nel corso di una carriera lavorativa iniziata ufficialmente a 24 anni, non ho memoria di discriminazioni o violenze economiche o verbali da parte di capi uomini, ma ricordo benissimo le tante bassezze, ritorsioni, gelosie e meschinità che mi sono ritrovata a subire per conto delle mie superiori, incluso un licenziamento perché «non le stai simpatica». Odio dunque le donne? No. Giustifico in toto gli uomini? Nemmeno. Mi limito, nel mio piccolo e con un po’ di buon senso, a non fare di tutta un’erba un fascio, tenendomi lontana da determinati estremismi e continuando a pensare con la mia testa, convinta che un dialogo più sincero, rispettoso e meno “rabbioso” costituisca la base per il riconoscimento dei nostri inalienabili diritti.

In un pezzo pubblicato su Il Foglio lo scorso anno, proprio in occasione dell’8 marzo, Simonetta Sciandivasci citava non a sproposito Jessa Crispin, autrice di Why I am not a Feminist: «Se le donne ai posti di comando possono comportarsi come gli uomini, questa non è una sconfitta del patriarcato, ma solo un patriarcato con dentro le donne».
Sono anti-femminista se dico che l’ipotesi mi spaventa non poco?

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