Nati negli anni '80: la cosa peggiore che poteva capitarci | Rolling Stone Italia
Società

Nati negli anni ’80: la cosa peggiore che poteva capitarci

Tra tutte le epoche gli anni ’80 sono la peggiore combinazione possibile in cui nascere: una generazione low cost di cavie senza lavoro. Meglio nascere parameci.

Nati negli anni ’80: la cosa peggiore che poteva capitarci

Con orgoglio da martiri ci autodefiniamo generazione maledetta. Così bestemmiamo contro il dio dei padri che continuano a darci la paghetta e ci succhiamo il ditone, singhiozziamo nei nostri bilocali con le pirofile della nonna e carichiamo una storia su Instagram con le orecchie da conigli. Noi, nati negli anni ’80. Tra tutte le epoche, tra tutte le nazioni, tra tutte le forme di vita animali e vegetali c’è chiaramente toccata la peggiore combinazione possibile. Potevamo nascere parameci, disegnare eleganti spirali nell’acqua stagnante e abbuffarci di batteri a chilometro zero, oppure nascere cani e, se non ci avevano castrati, fare l’amore al parchetto dove il rischio peggiore è una giornalata sul sedere e non una denuncia per molestie.

Nel 2016 in USA la ricchezza di una famiglia guidata da qualcuno nato negli anni ’80 era del 34% inferiore a quella delle generazione precedenti alla stessa età. A noi tocca viaggiare ovunque con le low cost, sfruttare le offerte delle palestre, pagare i 7,99 euro mensili per l’abbonamento di Netflix invece che poterci permettere due biglietti del cinema a settimana, inventarci nuovi lavori ogni anno invece di timbrare il cartellino per mezzo secolo nello stesso ufficio con le nostre impronte digitali impresse sui pulsanti dell’ascensore. Potevamo nascere nella preistoria, quando la ricchezza dell’intero pianeta era a disposizione di tutti, lì, a portata di selce, non nelle mani di poche migliaia di oligarchi. Avremmo potuto accendere fuochi in angoli deliziosi della foresta, cuocere roditori non geneticamente modificati, goderci tutti i 25, 26 anni di vita che avevamo a disposizione senza dover invidiare un decrepito stregone ventinovenne perché “tanto noi la pensione non la prenderemo mai”.

Ci chiamiamo anche generazione cavia: abbiamo iniziato a cercarci un lavoro quando il lavoro così come era stato concepito fino ad allora stava scomparendo. E quell’insensibile di Dio ci ha fatto nascere proprio 1980 anni e rotti dopo la nascita di suo figlio, che tanto quello poteva fare il falegname quando gli artigiani avevano ancora una dignità e l’IVA era ai minimi storici. Il lavoro, la grande vocazione dell’uomo civilizzato, il senso metafisico dell’esistenza incarnato in zappe e chiavi inglesi e file Excel, la missione che nobilita la nostra specie almeno dai tempi delle piramidi. Prendi la servitù della gleba: i padri che per decreto imperiale dovevano trasmettere il proprio mestiere ai figli senza che diavolerie cibernetiche ne prendessero il posto tra i campi, tutti perfettamente integrati nell’ambiente circostante di cui non erano che pezzi tra gli altri, avere per colleghi una vacca e una cipolla. E pensa alla la gloriosa epoca della Rivoluzione Industriale: ben prima della noiosa polemica tra vaccinisti e antivaccinisti, crepare di un morbo nobile come la tubercolosi, al pari di Novalis e Pascal, tossir sangue con la grazia infinita di Chopin, mica marcire in un letto d’ospizio scambiando l’infermiera per la propria bisnonna.

Avremmo potuto partecipare alla Rivoluzione Francese, quando 2,5 milioni di morti hanno cambiato il mondo per sempre, quando la ghigliottina sì che era una reality come si deve, e prima o poi anche i giudici partecipavano, così imparano a non riconoscere i nostri talenti, finché pure la loro testa non rotolava in un cesto come una mela. Avremmo potuto nascere a fine ‘800 e provare finalmente entusiasmo per qualcosa, arruolarci e infilarci in una trincea con i crucchi al di là del Piave, accenderci una bella sigaretta quando si poteva fumare in buona coscienza e farci sparare da un cecchino indirizzato dalla nostra brace.
E, se proprio dovevamo nascere oggi, potevamo farlo almeno in Cina, un posto con un futuro davanti. Dodici ore al giorno in una delle cento stazioni di una catena di montaggio, sfruttare le pause di dieci minuti per recuperare il sonno, riprendere la navetta per il dormitorio insieme ai compagni, fraternamente uniti dalla consapevolezza di lavorare per un grande paese, che tiene il mondo per le palle, altroché la patetica Italietta e la sua crescita alla moviola.

Altre notizie su:  opinione