L'ultimo discorso del Presidente Obama | Rolling Stone Italia
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L’ultimo discorso del Presidente Obama

Ieri è andato in scena l'ultimo discorso di Barack Obama da Presidente degli Stati Uniti, chiuso con lo stesso ‘Yes We Can‘ del 2008, rivolto ora al paese (e a Trump) come una speranza per un'America senza razzismo e conflitti sociali

L’ultimo discorso del Presidente Obama

Non poteva che tenersi nella sua Chicago – nella città che nel 2008 assistette per prima a un’ascesa politica trainata dalla speranza del “Yes We Can” – l’ultimo discorso del Presidente uscente Barack Obama, che davanti alle ventimila persone accorse al McCormick Place ha voluto tirare le somme dei suoi otto anni alla Casa Bianca.

Intrecciando tra le sue parole risultati raggiunti e autocritiche, Obama nella sera del suo addio ha voluto lanciare un appello, un monito urgente, a quella che sarà l’America del futuro, che non dovrà perdere fiducia nel cambiamento. Obama, lungi da ogni allarmismo, ha infatti incitato il paese a ripartire da quanto raggiunto durante la sua amministrazione, dall’aumento dei posti di lavoro e dei salari, dai passi avanti nella lotta alla povertà e nei matrimoni gay, così come dai progressi nei rapporti con Cuba, Iran e dai successi nella lotta al terrorismo con l’uccisione di Osama Bin Laden

Il discorso si è poi indirizzato sul lavoro che è ancora necessario fare, su quanto sente forse come un rammarico, ovvero un Welfare ancora troppo debole per proteggere la classe media, in cui le disuguaglianze si sono inasprite dando vita a quella “disillusione e polarizzazione politica” di cui negli anni recenti anche gli Stati Uniti sono stati teatro. Zittendo i fischi rivolti a Trump, Obama si è poi espresso fiducioso rispetto a quello che sarà «un pacifico passaggio del potere – un segno distintivo della democrazia, ha ricordato – da un Presidente liberamente eletto al prossimo», sottolineando, tuttavia, di come un’America “post-razziale” sia ancora un’illusione.

È qui, infatti, l’appello commisto a un velato timore, rivolto in particolare alla futura amministrazione Repubblicana e a quella ‘post-verità’ che dominò la campagna di Trump, infarcita di dati e fatti travisati, manovrati ad hoc. Ricordando, infatti, il pericolo insito nella strumentalizzazione politica del razzismo, Obama ha ricordato: «Gli stereotipi sugli immigrati e i profughi di oggi sono gli stessi che venivano usati cento anni fa con gli irlandesi, gli italiani, i polacchi che abbracciarono i valori americani e rafforzarono, non indebolirono gli Stati Uniti». Il Presidente uscente ha insistito sulla necessità che i conflitti sociali già esistenti non vengano inaspriti dall’odio per il ‘diverso’, in particolare sul fronte del rapporto con l’Islam e con la comunità formata dai milioni di cittadini musulmani, “che amano l’America quanto voi”.

A Trump lascerà anche la sua amatissima riforma sanitaria, la cosiddetta ‘Obamacare’, «che ha dato copertura ad altri 20 milioni di cittadini» – e che il futuro Presidente non ha mai nascosto di voler cancellare – così come le riforme ambientaliste, che verranno per forza di cose affidate a chi, in campagna elettorale, ha sostenuto che il cambiamento climatico fosse un’invenzione messa in piedi dalla Cina in modo frenare il progresso industriale statunitense.

La chiusa, pronunciata fra evidenti lacrime di commozione, non poteva che essere dedicata a Michelle: «Negli ultimi 25 anni non sei stata solo mia moglie e la madre delle mie figlie, sei stata anche la mia migliore amica – ha continuato Obama – hai accettato un incarico che non avevi chiesto, con grazia, con grinta, stile e buon umore. Mi hai reso orgoglioso; hai reso orgoglioso il nostro Paese».

«Servirvi è stato l’onore della mia vita – pronuncia poi Obama al momento del commiato – ma non mi fermerò, sarò accanto a voi, come cittadino, per tutti i giorni che mi restano. Vi chiedo di continuare a credere, non nelle mie capacità di portare al cambiamento, ma nelle vostre: vi chiedo di mantenere salda la fede scritta nei nostri documenti fondanti; quell’idea sussurrata da schiavi e abolizionisti; quello spirito cantato da immigrati e coloni, da coloro che hanno marciato per la giustizia; quella fede riaffermata da chi ha piantato bandiere, sui campi di battaglia stranieri così come sulla luna; una fede al nucleo di ogni storia americana che ancora non è stata scritto: Yes we can, Yes we did, Yes we can!».