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Dopo il voto, i voti: la pagella post-elettorale

La seconda Repubblica è finita definitivamente ieri notte. Ora, in attesa delle scelte del Presidente della Repubblica, siamo di fronte a un Parlamento senza maggioranza, ma con vincitori e vinti.

Dopo il voto, i voti: la pagella post-elettorale

Foto © Salvatore Laporta/Kontrolab / IPA

Sconquassata già nel 2013, dall’irruzione del Movimento 5 Stelle, la seconda Repubblica è esplosa tra ieri notte e oggi, con un big bang che ha ridefinito le sembianze della politica italiana. Nessun partito ha i numeri per governare da solo, come era previsto. Tuttavia, ci sono i vincitori e ci sono i vinti.

Partito Democratico

Dalle dimissioni di Silvio Berlusconi, nel novembre del 2011, ha sostenuto tutti i governi che si sono succeduti. Quello di Mario Monti, quello di Enrico Letta, quello di Matteo Renzi, infine quello di Paolo Gentiloni. È stata la forza responsabile su cui la struttura politica italiana si è retta per ottenere la famosa “stabilità”. Questo centro del sistema è stato distrutto dagli elettori, che l’hanno mandato sotto la sotto la soglia del 20% (il risultato peggiore da quando il partito democratico è nato, undici anni fa). Un tracollo che, probabilmente, travolgerà anche il suo segretario, Matteo Renzi, identificato completamente con l’establishment e perciò respinto. Dicono che la storia la scrivono i vincitori, però sopra ci si arrovellano i vinti. Sospettiamo che il Pd avrà molto su cui riflettere.

Liberi e uguali

Nati dall’unione dei fuoriusciti dal partito democratico e di tutte le sigle che c’erano a sinistra del Pd. Quando fondarono la lista, i dirigenti prevedevano risultati a due cifre. Poi, con il tempo, e i sondaggi, le aspettative sono calate intorno al 6%. Gli elettori han fatto superare di poco la soglia di sbarramento del 3%. Anche qui: molta materia di riflessione.

Europa

Il nome evocava l’europeismo trionfante di Emmanuel Macron in Francia. Qui, però, non raggiunge neanche la soglia di sbarramento.

Forza Italia

Dunque, Silvio Berlusconi. È insieme vincitore e vinto. Vincitore perché è riuscito, dopo anni, a riunire il centrodestra e a presentarsi agli elettori come il federatore, anzi l’unico vero federatore della politica italiana. Vinto perché, nella sfida interna alla colazione, quella contro la Lega di Salvini, perde 14 a 18. Non poco.

Lega

Senza la parola Nord, il partito di Matteo Salvini avanza in tutta Italia. Aveva, nel 2013, il 4,09%. Oggi è al 18%. Più che quadruplicata. La mutazione è giunta a compimento: dall’idea della secessione, il partito che fu di Bossi vira verso il nazionalismo compiuto, base al nord, tentacoli ovunque, persino nelle periferie di città come Roma, in cui, fino a pochi anni fa, bastava solo ricordare uno slogan per tenerli lontani: “Roma ladrona”. Ora cosa farà dei suoi voti? Ha due strade: spenderli nella coalizione di centrodestra, di cui ha conquistato la leadership; oppure, rischiare un abbraccio con il Movimento 5 stelle, convergendo su alcuni temi comuni: dall’abolizione della legge Fornero, alla critica dell’Unione Europea. In questo scenario, però, potrebbe dover rinunciare, o, almeno, sfumare la sua posizione anti immigrati, il motore del suo successo. Più difficile che accada.

Fratelli d’Italia

Cresce, come la Lega: ma non così tanto, non così prepotentemente (si ferma sopra il 4%, alle scorse elezioni era al 1,96%). Giorgia Meloni aveva la storia politica per essere la Marine Le Pen italiana. Entrambe le signore hanno nel simbolo del proprio partito una fiamma, la fiamma della destra post fascista, che brucia in molti luoghi d’Europa, e che però in Italia, per via di venti particolari, particolari posizioni, particolari credibilità, illumina Salvini, e non lei.

(CasaPound. Alcuni temevano la marea nera: l’avanzata dei fascisti. Appelli, allarmi, mobilitazioni, controffensive. Puf… sono rimasti sotto l’1%. Al contrario e all’estremo opposto, Potere al Popolo, sottovalutato anche da chi scrive, supera l’1).

Movimento 5 Stelle

È il vincitore di queste elezioni. Dopo una campagna elettorale perfetta, giocata sul registro del governo (Luigi Di Maio) e su quello della piazza (Alessandro Di Battista), i due hanno dimostrato che senza Beppe Grillo (desaparecido prima del voto) riescono a fare persino di meglio (da 25 al 31, quasi 32). Grillo, infatti, è stato il motore del movimento, ma anche – per la sua esagerata e non rassicurante irruenza – il tappo che gli impediva di propagarsi. Nel 2013, il comico chiamò il suo tour Tsunami. Era un’annuncio, lo tsunami è arrivato oggi. Fin da ieri sera, i cinque stelle rivendicano il diritto di ricevere l’incarico di formare il governo, come primo partito. Il presidente della Repubblica, però, darà l’incarico a chi sarà in grado di ottenere la maggioranza in parlamento. Perciò, terminata la campagna elettorale, i Cinque stelle dovranno fare politica: trattare, trovare convergenze, riuscire a spiegare ai propri elettori che questo è il gioco parlamentare. Vedremo se ne saranno capaci. Di sicuro c’è che – come già scriveva Antonio Gramsci – demonizzare l’avversario ha un solo, grande risultato: renderlo più forte.

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