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Domani chiedete soldi, non mimose

Lasciate perdere tutti i discorsi sulla mistica della maternità: secondo i dati delle Nazioni Unite relativi al 2017, per ogni dollaro guadagnato da un uomo una donna prende 77 centesimi.

Domani chiedete soldi, non mimose

Foto WENN / IPA

Domani è l’otto marzo e io sono molto preoccupata. Perché in tempi di femminismo pop e retorica spiccia sull’empowerment femminile (credi in te stessa, accettati come sei e altri mantra al sapor di déjà vu: tutte abbiamo sfogliato Cioè almeno una volta), esiste il rischio più che concreto che ci si perda via su diatribe fondamentali tipo “mimosa sì o no?” – il sessismo recondito dell’acacia dealbata, quale miglior argomento per un dibattito social – o si replichino iniziative sottilmente provocatorie come “su la gonna” che l’anno scorso, come dimenticarlo, ha portato un gruppo di femministe enragées a mostrare la vulva davanti al Pirellone “come gesto contro il potere patriarcale e sessuofobico”.

Ecco, il mio timore è che in quest’epoca di vagine prima monologanti e poi dialoganti (un giorno, è inevitabile, inizieranno a straparlare), di Frida Kahlo ridotta a santino post-femminista e Simone De Beauvoir questa sconosciuta, di free bleeding e altre stranezze spacciate per battaglie di emancipazione, si perda di vista quello che, nella visione prosaica e venale di chi scrive, è il punto focale della questione femminile: i soldi. Perché intendiamoci, parlare di cultura è sempre una bella cosa, tanto più se si tratta di cultura dello stupro da aborrire e cultura del patriarcato da abbattere: in questo le donne dei centri antiviolenza, di “Non una di meno” e di altri gruppi per cui il femminismo è ancora una cosa seria sono bravissime.

Ma parlare di soldi, oh, parlare di soldi è ancora più bello, e questo bizzarramente lo fanno in pochi. Eppure, per dire, il discorso di Frances McDormand ai primi Oscar dopo il MeeToo verteva esattamente su questo, tra una risatella stravagante e l’altra: soldi. “Abbiamo storie e progetti da finanziare – ha detto ritirando il premio di miglior attrice – non parlatecene alle feste stasera ma chiamateci in ufficio tra un paio di giorni”. Come dire: il cinema femminile non ha bisogno di incoraggiamenti, hashtag e generici endorsement, ma di finanziamenti, accordi e contratti chiusi. E l’inclusion rider a cui McDormand ha fatto riferimento altro non è che una clausola contrattuale con cui gli attori richiedono che cast e troupe soddisfino dei canoni di diversità e equità. Equa distribuzione del lavoro e equo trattamento economico: in una parola, soldi.

Sempre restando a Hollywood, senza nulla togliere alla portata epocale del movimento #MeeToo, una cosa molto ma molto femminista l’ha fatta Robin Wright in merito alla sua partecipazione a House of Cards. La storia è nota: avendo scoperto non senza sgomento di essere pagata meno di Kevin Spacey, Wright – con una caparbietà degna di Claire Underwood – ha sottoposto a Netflix il minutaggio delle scene sue e di quelle del di lei consorte scenico: se i tempi erano gli stessi, anche i compensi dovevano esserlo. Era il maggio 2016 quando Wright ha parlato per la prima volta della disparità salariale tra i coniugi Underwood; un anno dopo si è arrabbiata ancora di più sostenendo che Netflix non avesse aumentato abbastanza i suoi compensi e ora, anno domini 2018, Claire è sola al comando dopo il licenziamento di Spacey per i noti motivi: il trailer della sesta e ultima stagione di House of Cards che la vede saldamente assisa alla scrivania Resolute dello studio ovale mette eloquentemente fine alla questione.

Ecco, la battaglia di Robin Wright per la parità salariale ci porta dritti al punto. Se ho ossessivamente scritto “soldi” è solo perché sono una ragazza semplice (infatti a me le mimose potete ancora regalarle): per dirla bene, bisogna parlare del gender pay gap, il divario retributivo tra uomini e donne, che l’Onu ha sobriamente definito “il più grande furto della storia”. Secondo i dati delle Nazioni Unite relativi al 2017, per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna prende 77 centesimi: una situazione generalizzata indipendentemente da Paese, mansione e fascia d’età. Ma guardiamo all’Italia. Stando al report 2017 stilato dall’osservatorio JobPricing, le retribuzioni medie nazionali sono di 30.676 euro per gli uomini e 27.228 euro per le donne: balla circa un 11 per cento, che però sale al 12,2% (dati Consob sulla corporate governance) se consideriamo gli stipendi dei dirigenti. Ma il problema non sono tanto le donne che lavorano, quanto quelle che non lavorano. Quelle che dopo il primo figlio stringono i denti e magari ce la fanno, ma dopo il secondo ci rinunciano, perché i costi di asili nido, tate e baby sitter superano uno stipendio medio: a quel punto, tanto vale stare a casa.

Ecco, la questione delle madri che non lavorano è cruciale, perché emblematica di come le sovrastrutture culturali rischino di far perdere di vista la struttura economica: fare dell’accademia anziché badare al vil danaro può essere fuorviante, e lo si vede molto bene ogni volta che si tenta di approcciare anche alla lontana il discorso del sostegno alla natalità. Perché sembra un discorso molto di destra, addirittura di memoria un po’ fascista, questa storia di sostenere le nascite. E le neo femministe puntualmente insorgono: ma come, le donne esistono solo in quanto madri? Cosa siamo, un utero ambulante? Andatelo a raccontare alle pancine d’amore che alle donne nel 2018 serve il bonus bebè.

Ragazze, amiche, date retta a una stupida: vi state sbagliando. Lasciate perdere tutti i discorsi sulla mistica della maternità e badate ai soldi, solo a quelli: una donna che ha asili nido a rette calmierate e un bonus per la baby sitter è una donna che può tenersi il suo lavoro (e magari aspirare alla carriera come farebbe un uomo, anziché pietire un part-time perché non ce la fa) o cercare un lavoro nuovo. Una donna con uno stipendio è una donna emancipata (che l’emancipazione sia di natura eminentemente economica fin dal diritto romano è un pistolotto che non vi attacco ma fidatevi, è così), una donna emancipata è una donna economicamente indipendente e, in definitiva, una donna libera. Se l’indipendenza economica è cosa buona e giusta nei frangenti più ordinari nella vita, diventa essenziale in caso di violenza domestica: l’assenza di mezzi e la ricattabilità economica sono notoriamente un motivo molto frequente per cui le donne non riescono ad allontanarsi da un compagno violento. Ecco, quello del sostegno alla maternità è solo un esempio del circolo virtuoso che si innesca quando alle chiacchiere si predilige la concretezza.

Domani è l’otto marzo e oggi è il giorno prima di domani: avrei una prece per chi si sta accingendo a preparare l’editoriale di rito o anche solo il semplice post da social in tema festa della donna. Per favore, fate una cosa femminista: parlate di soldi.

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