Chi ha respinto i migranti in Libia e perché è decisivo saperlo | Rolling Stone Italia
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Chi ha respinto i migranti in Libia e perché è decisivo saperlo

Una nave italiana ha riportato 108 migranti salvati in mare sulle coste africane, un fatto inedito. La responsabilità dell'accaduto non è chiara, la violazione del diritto internazionale sembrerebbe proprio di sì

Chi ha respinto i migranti in Libia e perché è decisivo saperlo

Sono le 20.39 del 30 luglio quando su Twitter Oscar Camps, fondatore di Open Arms, una delle poche Ong rimaste a largo delle acque libiche, pubblica una schermata da cui è nata la notizia del giorno. La Asso 28, un rimorchiatore da supporto che trascina le petroliere facendo la spola da terra fino alle piattaforme a largo della Libia, ha riportato a Tripoli 108 migranti, soccorsi durante un’operazione di salvataggio. É prima volta che accade. E il fatto potrebbe portare delle importanti conseguenze sul piano della giustizia internazionale.

La Libia non è un Paese che garantisce il rispetto dei diritti umani. Le fonti che lo affermano sono tantissime. Le più autorevoli sono quelle delle Nazioni Unite: un panel di esperti monitora periodicamente la situazione, valutando le condizioni di stabilità del Paese fin dalla caduta del vecchio presidente Muammar Gheddafi, deposto e ucciso nel 2011. Il rapporto del giugno 2017, ad esempio, riporta violazioni sistematiche dei diritti dei migranti subsahariani e arriva ad accusare guardacoste e centri di detenzione governativi.

In più, gli stessi centri per migranti riconosciuti dal ministero dell’Interno libico sono in realtà delle prigioni, dove le persone vivono in condizioni disumane, come ricorda il documento dell’Ufficio Onu sui diritti umani (OHCHR), che lo scorso novembre ha condannato la collaborazione dell’Italia con le autorità del governo di Tripoli.

A questo si aggiunge la totale ingovernabilità della Libia. Per quanto, su spinta in particolare della Francia, a dicembre il Paese dovrebbe andare alle urne, la verità dei fatti è che non esiste un’autorità in Libia. Ci sono milizie, gruppi armati, trafficanti, tribù autonomiste che controllano singole aree del Paese. Rispetto a qualunque entità che si possa chiamare Stato, alla Libia manca il monopolio dell’uso della forza: chiunque, al momento, può cercare di imporsi.

In questo contesto accade che il comandante della Guardia costiera di Zawiya, cittadina a ovest della Libia, dalla quale sono partiti migliaia di migranti negli anni passati, invece che rispondere al Governo di Tripoli, facesse riferimento a una milizia guidata da Mohammed Koshlaf, considerato dall’Onu un trafficante di uomini e di gasolio di contrabbando, e per questo oggetto di sanzioni da parte delle Nazioni Unite.

Foto di Chris McGrath/Getty Images

In pratica, a Zawiya c’è un cartello criminale che controlla le partenze dei migranti, il loro centro di detenzione locale e che a questo aggiunge profitti con la vendita di gasolio di contrabbando. Non è una notizia confermata da fonti ufficiali, ma secondo inchieste giornalistiche tutto questo avviene con mezzi donati dall’Italia e dopo i corsi di addestramento forniti dall’Unione europea. Una situazione paradossale, verificatasi certamente molto spesso almeno fino alla fine dello scorso anno.

Tornando all’episodio dell’Asso 28, gli aspetti da chiarire sono ancora molti. Infatti ogni operazione di salvataggio – non solo di migranti, ma di ogni imbarcazione in difficoltà – viene coordinata da una guardia costiera, che deve poi individuare un porto sicuro dove far avvenire lo sbarco.

“Porto sicuro” è una nozione giuridica abbastanza scivolosa: non esiste infatti un’unica fonte giuridica in grado di stabilire se un luogo è sicuro per sbarcare oppure no. Sulla Libia, però, ci sono pochi dubbi: fino adesso nessuno ha mai affermato che sia un porto sicuro. Per ultimo il Tribunale del Riesame di Ragusa, chiamato a valutare il ricorso contro la richiesta di dissequestro della nave di Open Arms a maggio, ha scritto nero su bianco che non lo è.


Ma è stata davvero l’Italia a coordinare la missione? Il ministro dell’Interno Matteo Salvini in un post su Facebook scrive: “La Guardia Costiera Italiana non ha coordinato e partecipato a nessuna di queste operazioni, come falsamente dichiarato da una Ong straniera e da un parlamentare di sinistra (Nicola Fratoianni, ndr) male informato”. Questo dettaglio è decisivo per capire le conseguenze di questo episodio.

Fino ad oggi, infatti, le operazioni di salvataggio sono state gestite dal Comando generale della Capitaneria di Porto, a Roma, dove ha sede l’Imrcc, sigla che sta per Italian Maritime Rescue Coordination Center. Qui, da megaschermi dove si muovono cursori colorati, la Guardia costiera mappa in tempo reale la situazione e in caso di Sos può disporre di mandare la nave più vicina a effettuare il salvataggio. In seconda battuta, fa uscire le sue navi per completare le operazioni.

Da convenzioni internazionali, Roma avrebbe competenza solo in una fetta di Mediterraneo, la Srr (Search and Rescue region, composta da diverse Sar, Search and Rescue zone) italiana. Nei fatti, quello che è successo a partire dalla missione umanitaria Mare Nostrum (ottobre 2013-ottobre 2014) è che l’Italia ha gestito la quasi totalità delle operazioni di salvataggio, coordinandosi in qualche caso con Malta, che però ha sempre rinunciato a mantenere il controllo, sostenendo di non avere competenza.

Anche quando qualche episodio avveniva in prossimità delle acque libiche, il coordinamento è stato gestito da Roma. La Libia, fino al 28 giugno, non aveva nemmeno una Srr. Anche sulla sua effettiva capacità di gestirla ci sono dubbi: strumentazioni e mezzi sono infatti donazioni dell’Italia, che ha anche aiutato la Libia nel depositare la richiesta di Srr all’Imo (International Maritime Organisation), agenzia Onu che si occupa della sicurezza in mare.

Foto Michele Amoruso / IPA

Ora l’Imo ha registrato l’esistenza di una Srr libica, ma affinché sia funzionante davvero serve anche che ci sia un centro operativo, tipo l’Mrcc di Roma. Tripoli sostiene di averne uno, ma di nuovo quello che è accaduto fino ad oggi è che fosse l’Italia a coordinare, anche dalla Libia. Davvero Tripoli in un anno è riuscita a realizzare un centro di coordinamento dei soccorsi? Era il 5 luglio dello scorso anno quando l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, nella sua relazione al Parlamento, parlava dell’intenzione di dare vita a questa struttura a Tripoli. Nel 2012 l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per dei respingimenti in Libia.

Al ministero dell’Interno c’era Roberto Maroni, presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: l’anno precedente i due avevano stretto il cosiddetto Trattato di amicizia Italia-Libia che sostanzialmente prevedeva aiuti economici e sostegno in contesti politici internazionali in cambio di concessioni per il petrolio e respingimenti in mare. La differenza consistente con lo scenario di oggi è che all’epoca i respingimenti erano effettuati da navi militari italiane, quindi la gestione italiana era fuori ogni dubbio.

Ora, il principio che era stato violato in quella circostanza, era quello di non respingimento (articolo 33 della Convenzione di Ginevra): un migrante non può essere rispedito in un Paese dove rischia la vita. Ma perché questo principio sia valido, a effettuare il respingimento deve essere un Paese che riconosce queste norme di diritto internazionale: l’Italia lo fa, la Libia no.

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