Marco Cappato: «Dj Fabo si è allenato a morire» | Rolling Stone Italia
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Marco Cappato: «Dj Fabo si è allenato a morire»

Oggi a Milano ci sarà l'ultimo saluto a Fabiano, il ragazzo che una settimana fa ha deciso di andare in Svizzera per porre fine al suo dolore inguaribile. Abbiamo incontrato Marco Cappato dei Radicali, ora indagato per aver accompagnato Dj Fabo a morire

Marco Cappato: «Dj Fabo si è allenato a morire»

È arrivato anche il saluto in chiesa per Fabiano Antoniani, quel saluto che venne invece negato a Welby, colpevole di voler morire proprio come DJ Fabo. È stato Marco Cappato, che ora infatti è indagato e si dice pronto ad assumersi fino in fondo ogni responsabilità, ad aiutarlo a sentirsi libero fino alla fine accompagnandolo in Svizzera. Ed è strano pensare che Fabo, come ultimo atto, abbia dovuto accettare un esilio, andando a morire in un paese che non era il suo, per porre fine a un altro esilio, quello del suo corpo, che era diventato strumento di tortura. Una tortura ignorata dalla politica, fatta da uomini così vigliacchi da rispondere con il silenzio all’appello che Fabo fece in tv parecchie settimane prima di morire. E allora sarebbe bello che una risposta arrivasse dalla partecipazione di tutta Milano e tutta Italia alla preghiera di questa sera alle 19 nella parrocchia di Sant’Ildefonso. Soprattutto perché tra pochi giorni in parlamento arriverà il disegno di legge sul testamento biologico, ovvero la possibilità di decidere quali trattamenti sanitari si intenderanno accettare o rifiutare, o a chi ci si dovrà rivolgere per chiederlo, nel momento in cui subentrerà un’incapacità mentale. Questa discussione alla Camera è già stata rinviata tre volte in due mesi e speriamo che questa non sia la quarta. Questo tentennamento della politica è infatti particolarmente odioso, perché ha il sapore del “io non ho visto niente”, che è convenienza e non convinzione, il minimo che ci si potrebbe aspettare da chi guida il paese.

Ho incontrato Cappato, che della libertà di scelta ha fatto una ragione di vita, per chiedergli di quei giorni, di questi giorni, dei prossimi giorni. Ma anche di lui e della sua storia Radicale. Lui e Fabo hanno smosso le coscienze e creato un dibattito che ha fatto il giro del mondo e che è almeno servito a fare chiarezza. Tra le tante cose che ho letto, una di quelle che più mi ha colpito l’ha scritta un amico, Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, il grande capitano della Roma che il 30 maggio del 1994 si tolse la vita. E siccome credo che proprio l’amore sia al centro di questa battaglia, che si gioca anzitutto sulla chiarezza delle parole, la leggo a Cappato:

“Non chiamate suicidio il gesto compiuto da Fabo, perché non lo è. Un suicidio è un atto inspiegabile e doloroso per chi lo subisce. Un suicidio lascia impotenti e dilania chi resta, generando un dolore sordo, a lento rilascio. Il gesto di Fabo è molto diverso: in quell’atto c’è solo amore. Amore, altruismo e dignità”.

Ha ragione. La comprensione di questi fatti, e dunque la loro accettazione, si gioca sui termini. Ad esempio la parola eutanasia in Italia ha un grande consenso popolare, se invece parli di suicidio assistito la percentuale di consenso crolla. Questo è paradossale, perché la prima è molto più avanzata, meno tenue rispetto alla seconda.

E in Svizzera che nome porta l’atto di Fabo?
Non usano la parola suicidio, ma assistenza medica alla morte volontaria.

Anche perché in Svizzera, a differenza di ciò che si pensa in giro, l’eutanasia non è legale.
È vietata quella attiva, come c’è invece in Olanda o in Belgio. Dove il medico può intervenire e non è il paziente stesso a doverselo somministrare.

Fabo ha dovuto fare da solo invece. È vero che aveva paura di non farcela?
Era terrorizzato. Fabo non si muoveva e l’unico modo di attivare il meccanismo era di fargli mordere un pulsante. Abbiamo dovuto fare le prove il giorno prima, non senza problemi, per esempio con l’inclinazione del braccio meccanico con il quale il dispositivo si avvicina alla bocca. Per certi versi è stato un momento più drammatico di quello del giorno successivo.

Costringere chi richiede di morire a fare da solo è un escamotage quindi, solo per lasciare in capo a lui ogni responsabilità?
Esatto. Ma sul piano morale cosa cambia se anziché mordere un pulsante gli fosse stata iniettata da un medico una soluzione eutanasica? O se ha premere quel pulsante fosse stata un’infermiera? Nulla. Assolutamente nulla.

Quando hai incontrato Fabo la prima volta?
Prima dell’estate scorsa mi ha scritto Valeria, la sua fidanzata, e ci siamo incontrati.

Ti ha subito detto di voler morire?
Sì.

Hai provato a farlo desistere?
Ci ho provato nei termini in cui potevo. Ho cercato di capire e poi di trovare appigli o motivazioni per resistere. Dicevo “Fabo la tua vita è la musica. Non ti muovi, ma puoi sentire, la musica l’hai ancora”. Sai cosa mi rispondeva lui? “A me la musica fa piangere”. Mi spiegava che riascoltare quella musica, che era la sua vita, non faceva altro che far riemergere tutto ciò che lui non poteva più essere. Quindi persino una passione, un amore, diventava costrizione.

Ci sono stati molti appelli a Fabo perché continuasse a vivere, alcuni anche da parte di persone nelle sue stesse condizioni. Penso a quel ragazzo di 19 anni, disabile gravissimo, che gli ha scritto “noi siamo pensiero e il pensiero cambia il mondo”. Te lo dico perché ho trovato superficiali le reazioni di chi, per sostenere Fabo, gli rispondeva “nessuno ti obbliga a morire, non obbligare Fabo a vivere”. Io capisco le reazioni di chi nelle stesse condizioni, vuole continuare a vivere e sente con paura l’arrivo di una legge sull’eutanasia o sull’assistenza alla morte, che potrebbe portarli a pensare di doverla usare per non sentirsi di peso. Credo che l’argomento non si possa liquidare in modo così banale.
È vero, infatti quando sento parlare di vite che non sono degne di essere vissute mi si rizzano i capelli. A meno che lo si dica relativamente alla volontà della persona, di un singolo individuo che dice “io in questa vita non ci voglio vivere”. E questo non deve acquisire un significato oggettivo. Non si può dire “non è vita”, ma al massimo “questa mia non è più vita”. Per Fabo era così. Diceva “io faccio una vita di merda”, ma non voleva porsi ad esempio, a modello, a bandiera. Lui diceva che quella vita non la poteva fare e questo si aggancia a una reale esigenza e responsabilità della politica. Il sistema sanitario dovrebbe dare risposte di vita. Legalizzare l’eutanasia significa anche porre in essere strumenti che potrebbero trasformare la richiesta di eutanasia in altro, consentendo anzitutto a questi malati di essere ascoltati, e forse aiutati. Magari ascoltandoli ti accorgi che una persona chiede l’eutanasia, ma non ha la terapia del dolore. Allora potremmo dirgli di provarla prima di prendere una decisione. Oppure quello che dicevi tu, “per non essere di peso”. Chiediamoci prima: di peso a chi? Non è che in quelle condizioni avrebbe il diritto ad avere assistenza domiciliare e quindi aiuti per lui e la famiglia? Ancora: “disperato perché non posso più lavorare”. Non è che ascoltando il singolo caso ci accorgiamo che c’è la barriera architettonica e quindi non può andare al suo luogo di lavoro? Non basta dire che chi vuole vivere può vivere e chi vuole morire può morire. Chi vuole vivere deve avere il diritto a vedersi rimuovere tutti gli ostacoli.

Come reagiva Fabo a questi messaggi di solidarietà?
Se ti devo dire la verità, gliene ho letti tanti, ma non aveva voglia di ascoltarli.

Parlami del testamento biologico che andrà in aula lunedì.
Tre anni e mezzo fa abbiamo presentato una proposta di legge per legalizzare l’eutanasia. Un anno fa anche a seguito del caso di Dominique Velati e sulla pressione del caso di Max Fanelli, il Parlamento ha sdoppiato il tema bloccando la questione eutanasia e portando invece avanti, con molti ritardi, la discussione sul testamento biologico. Andrà in aula lunedì, anche se c’è il rischio che venga ulteriormente rimandata.

E cosa dice questa legge?
Che quello che già si può fare, si deve poter fare. Ti spiego: molte cose sono già state permesse dai tribunali. Eluana Englaro aveva lasciato detto al padre e il tribunale gli ha dato ragione, quindi questo si può fare. Si possono poi interrompere le terapie e questo ce lo ha detto il caso Welby. È persino possibile che un tribunale imponga alla ASL di interromperle, come nel caso Peludo. Il problema è che se incontri il medico sbagliato o un familiare che si mette di mezzo, o tu sei una persona attrezzata e ancora in grado di fare valere il diritto, o la tua volontà può essere ostacolata. Con una Legge sul testamento biologico ti spieghiamo come lo puoi fare e creiamo un dovere in capo al sistema sanitario, che a quel punto è costretto a darti retta. Per non perdersi nella terminologia, è importante quindi mettere al centro la volontà della persona e che questa volontà sia vincolante per lo Stato.

Perché Fabo non ha fatto come Welby, che è morto in Italia con la sospensione delle terapie?
La differenza tra loro è che Welby non aveva autonomia polmonare, mentre Fabo sì. Fabo aveva il respiratore, ma era solo un ausilio, perciò mentre Welby è morto dopo 20 minuti dal distacco, Fabo ci avrebbe potuto mettere 5, 6, 7 giorni. Forse di più.

Quindi avrebbe sofferto?
Lui probabilmente no, perché sarebbe stato sedato, anche se i rischi ci sono sempre. Ma pensa alla madre, alla fidanzata, che avrebbero dovuto aspettare per giorni la sua morte.

Perché ha chiesto a te di accompagnarlo in Svizzera e non alla madre o alla compagna? Per farla diventare una battaglia politica?
Anzitutto non voleva creare problemi ai familiari con la legge. Ho subito risposto sì, che lo avrei aiutato. Dopodiché gli ho detto che poteva aiutare altri rendendolo un atto pubblico. Con maggiore risonanza, ma anche tanti rischi, se lo avessimo raccontato prima di farlo. Lui ha detto subito sì. Non gli interessava la politica, mi ha confessato di non avere mai pensato a questo problema prima di ritrovarcisi.

Guardando al futuro invece, questa battaglia per la libertà ancora non è finita.
Stiamo aiutando altre due persone. Continueremo fino a quando non saremo fermati, da un giudice o da una buona legge. Solo allora lo Stato si sarà assunto la propria responsabilità.