Yves Tumor, la recensione di 'Heaven to a Tortured Mind' | Rolling Stone Italia
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Yves Tumor è qui per ricordarci che anche il pop può essere estremo

È enigmatico e tormentato. Scrive canzoni oscure e spigolose. Ma riesce a raccontare le relazioni in modo intenso e originale, e il nuovo 'Heaven to a Tortured Mind' è il suo disco più accessibile

Yves Tumor

Foto: press

Mai titolo di album fu più azzeccato per il periodo corrente: Heaven to a Tortured Mind, che grosso modo potrebbe essere tradotto con “il paradiso per una mente tormentata”. Un po’ quello che sembra a tutti noi guardando la primavera che esplode in tutta la sua grandiosa bellezza, costretti a godercela da dietro il vetro delle nostre finestre. D’altra parte Yves Tumor, pseudonimo di Sean Bowie, produttore e musicista cresciuto in Florida, è probabilmente più vicino alla nostra esperienza attuale di quanto lo siano tanti suoi concittadini. Nonostante il suo personaggio sia avvolto da un fitto mistero fin dall’inizio della sua carriera, infatti, è certo che abbia vissuto a lungo a Torino (la città del Club 2 Club, uno dei baluardi nostrani del panorama elettronico) e secondo alcuni risiederebbe ancora lì. Ma ovviamente il fatto che abbia deciso di intitolare così il suo ultimo disco è una semplice coincidenza, visto che ha cominciato a lavorarci ben prima dell’attuale emergenza Covid-19. Inoltre, è da sempre affezionato ai titoli evocativi e astratti: lo dimostrano brani come Licking an Orchid (“Leccare un’orchidea”), Hope in Suffering – Escaping Oblivion & Overcoming Powerlessness (“Speranza nella sofferenza – di sfuggire all’oblio e vincere l’impotenza”) o The Deposit of Faith (“Il deposito della fede”).

Più di tutto, però, ad essere astratte e intangibili sono le sonorità di Yves Tumor, che sono probabilmente la cosa più lontana dal pop che ci si possa immaginare sul mercato mainstream. L’affermazione può sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è perché, nonostante la sua voglia/necessità di andare sempre controcorrente – il mistero attorno alla sua persona, l’uso del pronome non binario “loro” in riferimento a se stesso – è evidente che questo è uno dei dischi più orecchiabili e mainstream che l’artista abbia mai realizzato nei suoi dieci anni di attività. A differenza di molti suoi lavori passati, è riconoscibile la forma-canzone, anche se ridotta ai minimi termini dalla brevità dei brani e sepolta sotto strati su strati di effetti, strumenti, distorsioni e variazioni.

Ascoltando attentamente, è possibile dedurre che nella sua collezione di dischi deve esserci molto più di quell’elettronica sperimentale e onirica che siamo abituati ad ascoltare da lui. Ci sono sicuramente il soul della traccia d’apertura, Gospel for a New Century, e il rock indipendente anni ’90 di A Greater Love, la traccia di chiusura; ci sono il punk chiassoso che si intravede in Medicine Burn e le linee di basso R&B perfettamente riconoscibili in Strawberry Privilege (che per uno strano scherzo del destino ricordano un po’ quella di Lovely Day di quel gigante di Bill Withers, venuto a mancare venerdì, proprio il giorno in cui l’album è uscito). Ma è evidente che Heaven to a Tortured Mind non è un disco da capire dissezionandolo pezzo per pezzo; è da ascoltare nella sua interezza. Così come nella sua interezza va preso il suo creatore, con i suoi spigoli e le sue rotondità, i guizzi di genio e la cacofonia, i fortissimi e i pianissimi, le altezze vertiginose che raggiunge e i baratri in cui sprofonda. Se non ci fossero estremi, non sarebbe un’opera di Yves Tumor.

Anche i testi non offrono grandi appigli all’interpretazione. Sono soprattutto immagini evocative, come quelle dei “seicento denti colorati e scarlatti e le teste tagliate” (Medicine Burn), o le “lisce armi su catene e metallo” (Folie Simultanée). In generale, le tematiche esplorano le infinite variazioni sul tema dell’amore conflittuale: e probabilmente il paradiso, per una mente tormentata, è proprio il pensiero di non possedere mai del tutto la persona a noi più cara, e la capacità di ferirsi a vicenda che deriva anche dai sentimenti più puri e disinteressati. Un disco non per tutti, a tratti straniante e respingente, ma molto più intenso e profondo della maggior parte dei suoi omologhi. Anche solo per questo vale un ascolto approfondito.

 

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