Yung Lean, la recensione di 'Stranger' | Rolling Stone Italia
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Yung Lean, l’etereo

Non è facile imbroccare tre missili di fila, e invece il rapper svedese ci è riuscito. 'Stranger' è l'opera più cloud rap del padre dei cloud rapper

Gli ultimi tre anni sono stati forse i più difficili della vita di Yung Lean. Nei primi mesi del 2015, una spirale di psicofarmaci e droghe lo ha costretto sul lettino di un ospedale psichiatrico. Al limiti del paranoico durante il ricovero, il rapper svedese aveva chiesto a Barron Machat, il manager americano, di portargli il suo hard disk. Sulla strada del ritorno, però, Barron ha perso il controllo della macchina morendo nell’incidente.

Nemmeno un anno dopo, qualcuno ha scaricato una semiautomatica contro il suo tour bus fermo a Pittsburgh, senza però fare feriti. Eppure, proprio come succede ai più grandi (vedi Kanye con 808’s & Heartbreak e la morte della madre), in questi tre soffertissimi anni Lean ha firmato solo capolavori, due cose chiamate Warlord e Frost God. Non solo i suoi migliori album, ma forse tra i dischi più rappresentativi degli anni ’10, per come hanno sintetizzato al contempo l’alienazione di una generazione e un’estetica post-tutto ormai trasversale ai generi.

Ed era dura anche per lui imbroccare tre missili di fila, e invece ci è riuscito. Stranger è forse l’opera più cloud rap del padre dei cloud rapper, un disco che sopprime del tutto i suoni aggressivi per affidarsi a layer eterei, minimali, di una levigatezza quasi terapeutica.

In Silver Arrows rappa pure “I’ll be up on cloud nine” mentre i suoi Yung Gud e Yung Sherman vaporizzano archi pizzicati e riverberati manco fossimo nella stratosfera. Metallic Intuition poi è Oneohtrix Point Never che per un mese ha ascoltato solo Gucci Mane. In Agony si leva di dosso l’autotune per mostrarsi com’è: un 21enne che ha più parole di quelle che riesce a dire.

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