‘Who’, ovvero come fare rock a 75 anni d’età | Rolling Stone Italia
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‘Who’, ovvero come fare rock a 75 anni d’età

“Sono troppo vecchio per combattere”, canta Roger Daltrey. Ma non è troppo vecchio per incidere con l’amico-nemico Pete Townshend un gran bel disco ancorato nel passato, ma senza nostalgia

Pete Townshend e Roger Daltrey

Foto: press

Guardi la copertina del nuovo album degli Who e la mente corre subito a quella di Face Dances, anch’essa disegnata da Sir Peter Blake. Se, però, i riquadri che componevano il mosaico del disco del 1981 presentavano una serie di ritratti atipici dei membri della band, le immagini scelte per la nuova opera potrebbero indurre a pensare che la nostalgia abbia infine fatto capolino nella mente di Pete Townshend e Roger Daltrey. D’altra parte, cosa ci si può aspettare da un album sulla cui copertina campeggiano foto di Chuck Berry, di Muhammad Ali e degli stessi Who nel pieno della loro tumultuosa giovinezza?

La prima sorpresa del loro secondo album in studio negli ultimi trentasette anni di carriera sta proprio in questo: a differenza del precedente e trascurabilissimo Endless Wire, nelle undici tracce che compongono Who non c’è spazio per il passato. «Non c’è nessun tema, nessun concept, nessuna storia, solo una serie di canzoni che io e mio fratello Simon abbiamo scritto per dare a Roger Daltrey la giusta ispirazione per far rendere al meglio la sua voce», ha detto Townshend. «Roger ed io siamo entrambi vecchi ormai, quindi ho cercato di stare lontano dal romanticismo e dalla nostalgia, se possibile. Non volevo mettere a disagio nessuno. I ricordi vanno bene, ma alcune canzoni si riferiscono alle cose di oggi».

Se nel disco del 2006 si faticava a scorgere anche solo qualche sfumatura del sound che aveva sempre caratterizzato la band, oggi le cose vengono messe in chiaro fin dall’iniziale All This Music Must Fade: la frase con cui Daltrey avvisa il mondo di quanto poco gliene importa dell’accoglienza della canzone e il “fuck” pronunciato da Townshend nel finale rappresentano quanto di più genuinamente Who ascoltato nell’ultimo quarto di secolo. Non male, per due ‘vecchie scoregge’ dirette verso gli 80 anni. Tuttavia, non lasciatevi ingannare da dichiarazioni che paragonano Who a Quadrophenia o Tommy. Semmai, possiamo dire con certezza che alcuni dei nuovi brani possono competere tranquillamente con molti di quelli composti quando Keith Moon faceva ancora parte della band. E che lo fanno senza ricorrere per forza di cose ad espedienti che ne rievocano il mito.

Se, come ha ammesso Townshend, The Who by Numbers è stato il primo disco in cui si è reso conto di non essere più un ragazzo, Who è di certo quello in cui il chitarrista fa apertamente i conti con la terza età. “I don’t need to fight to prove I’m right”, recitava uno dei passaggi più celebri di Baba O’Riley. Oggi, quella strofa sembra trovare la sua naturale evoluzione in quella di Rockin’ in Rage, in cui Daltrey, cantando “I’m too old to fight”, descrive benissimo il senso di fragilità fisica e mentale che accompagna il processo di invecchiamento.

Devo ammettere che l’idea che un album degli Who potesse contenere un brano sulla reincarnazione, mi metteva un po’ d’ansia. I’ll Be Back, l’unica traccia cantata da Pete Townshend, è invece uno degli apici del disco: nella sua voce tremante si avverte tanto il pathos legato a un argomento così delicato, accompagnato comunque dalla certezza del ritorno. Anche discografico, come ammette il chitarrista: «Non ho mai detto che questo sarà il nostro ultimo disco e non lo dirò mai. Per questo I’ll Be Back parla anche degli Who. Siamo tornati e se le cose andranno bene ripeteremo la cosa. Anche solo per soldi, visto che l’opera musicale basata sul mio nuovo libro mi costerà tantissimo».

Più ancora per le sonorità, è proprio per cose come questa che, durante l’ascolto di Who, non si ha mai la sensazione di ascoltare una band rassegnata a spegnersi. Seppur non tutti perfettamente a fuoco, i nuovi brani mostrano una forza vitale trascinante e un grande legame con la realtà. Per farsi un’idea, basta ascoltare Detour, Ball and Chain o l’epica Street Song, inno che sa già di classico. L’unica certezza è che, al di là degli scazzi, delle frecciatine e del fatto che l’album è stato composto e registrato senza che Townshend e Daltrey si incontrassero, i due hanno ormai accettato di essere le facce della stessa medaglia. Qualche tempo fa, Townshend ha dichiarato che avrebbe pensato a un nuovo album di inediti solo nel caso in cui Daltrey si fosse occupato di metà delle canzoni. Non è stato così. «Avrei voluto vederlo qualche volta in studio, sentire che cosa pensava di un brano, accoglierne i dubbi, ma non l’ha mai fatto», ha detto Pete. «È troppo ossessionato dalla sua voce per scrivere canzoni». «Lui sta bene in studio, io sto bene sul palco. Alla testa preferisco il cuore», ha risposto il compagno. La verità è forse un’altra. «Roger riesce a interpretare le cose che scrivo con una forza che gli deriva dall’amore verso la band. Lui è un fan degli Who. Io no».

 

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