Tool, la recensione di 'Fear Inoculum' | Rolling Stone Italia
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Tool, per ‘Fear Inoculum’ avremmo potuto aspettare anche 100 anni

Il quinto album della band di Maynard James Keenan vede la luce dopo un'attesa interminabile. È un monumento di intensità, caos e complessità, che ignora tutte le regole della discografia nell'era dello streaming

I Tool. Da sinistra: Justin Chancellor, Danny Carey, Maynard James Keenan e Adam Jones

Foto press

Un faraone con otto braccia e il corpo ricoperto di occhi è immobile sulla copertina del libretto di Fear Inoculum, il quinto album in studio dei Tool. Sfogliarlo, con tutte quelle spirali, strutture geometriche e onde piene di occhi, dà una sensazione strana, indefinibile. L’ultima volta, 13 anni fa, 10,000 Days ci costringeva a indossare gli occhiali intagliati nella copertina per scoprirne l’artwork in 3D. Ritrovarsi ancora a maneggiare le immagini esoteriche stampate su un nuovo disco della band americana sarà come ripensare a un vecchio sogno.

Fear Inoculum si presenta dentro un grosso cofanetto nero, sovradimensionato rispetto al solito, diviso in tre parti: il libretto, il disco, e uno schermo HD lungo 4’’ dove viene trasmesso un videoloop – una serie spirali di occhi e suoni inquietanti – controllato da tre tasti: se dimenticate lo schermo acceso, la riproduzione continuerà anche con il cofanetto chiuso e vi sembrerà che il disco respiri. Dopo 13 anni, è il minimo.

All’interno di questo strana scatola nera c’è l’album più denso e stratificato della carriera dei Tool. Fear Inoculum è un disco difficile, pieno di indovinelli musicali, con i momenti più quieti mai incisi dalla band e allo stesso tempo le tirate più violente. È l’album più esoterico dei Tool, e, soprattutto, l’unico disco possibile in questo momento della loro carriera. Tolti alcuni intermezzi strumentali, tutte le canzoni di Fear Inoculum superano o si avvicinano ai 10 minuti di durata: sono brani monumentali, sontuosi, completi, ricchi di tutte le diverse anime della band. 

Il disco si apre con la title track, che funziona sia da introduzione che da presentazione delle principali atmosfere musicali dell’album: una chitarra-violoncello e le percussioni di Carey introducono la voce di Maynard, decisamente più angelica del solito, che accompagna il brano verso il primo ritornello, a cui segue la prima di numerose code strumentali. Pneuma è, con ogni probabilità, il brano che i fan dei Tool aspettavano di ascoltare da 13 anni. Ha davvero tutto: grandi melodie, riff matematici, persino un assolo di chitarra, e sembra che parli dello Spirito Santo – “we are spirit bound to this flesh / we are born of one breath / we are all one spark, eyes full of wonder”. Descending si apre tra rumori di acqua e vento, e per una metà sembra la prima ballad del disco: poi, quasi dal nulla, l’arrangiamento si riempie di sintetizzatori alla Stranger Things, chitarre armonizzate e talkbox, e il brano si avvita su se stesso in una coda interminabile. La vera ballad, invece, si chiama Culling Voices, un momento di quiete necessario prima di Chocolate Chip Trip – un intermezzo strumentale surreale fatto di arpeggiatori, glitch, suoni metallici e un lungo assolo di batteria – e 7empest, il brano più violento e intenso dell’album.

Arrivati alla fine, e consapevoli che un disco così denso non può essere decifrato con una manciata di ascolti, non resta che rispondere a due domande. La prima: valeva davvero la pena aspettare tutto questo tempo? Be’, con ogni probabilità sì. Fear Inoculum è pieno di tutte le specialità dei Tool: ritmi tribali, testi indecifrabili, riff matematici e così via. La differenza, però, è che queste cose sono sempre tutte insieme in tutti i brani, che sono diventati più complessi. In Fear Inoculum non c’è un singolo come Schism, e neanche le linee vocali orecchiabili di The Pot. Prezzi che si pagano tranquillamente per ascoltare un album curato in ogni suo dettaglio. 

La seconda: i Tool sono ancora rilevanti nel 2019? Forse non sono mai stati più rilevanti di adesso. Nel 2006, 10,000 Days si apriva con un brano sulla nostra dipendenza dalla violenza in tv. 13 anni dopo siamo nella società delle social star, dei politici in diretta su Instagram, dei cadaveri nei vlog su YouTube e dei terrapiattisti. In un mondo così, forse, i Tool con la loro musica caotica, introspettiva e tribale, sono l’unica rock band possibile.

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