‘Tigertail’, la malinconia dell’American Dream nel ritratto di un immigrato di prima generazione | Rolling Stone Italia
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‘Tigertail’, la malinconia dell’American Dream nel ritratto di un immigrato di prima generazione

Il co-creatore di 'Master of None' racconta la storia di un ragazzo taiwanese ispirata a quella del padre, mettendo in scena gli snodi più emotivi attraverso il silenzio e glissando dove altri sarebbero stato sdolcinati. Su Netflix

Foto: Sarah Shatz/Netflix

C’era una volta un ragazzo che voleva partire per l’America. Era cresciuto nelle campagne di Taiwan con la nonna, costretto di tanto in tanto a nascondersi dentro la credenza per sfuggire ai controlli dei soldati in cerca di cittadini non censiti. Il ragazzo passava le sue giornate da solo, finché non incontrò nei campi una coetanea. Il nome del bambino era Pin-Jui, quello della bambina Yuan. Qualche tempo dopo, ormai adolescente, sua madre lo portò a vivere con sé (il padre era morto da molti anni) e a lavorare al suo fianco in una fabbrica della grande città. Una sera, Pin-Jui e Yuan si ritrovarono a ballare insieme in un locale al ritmo del beat pop anni ’60, per poi andare a cena (e scappare prima dell’arrivo del conto) in un ristorante carissimo. La loro amicizia si stava trasformando in una storia d’amore. Ma nella vita di lui si fece strada la possibilità di trasferirsi negli Stati Uniti, così Pin-Jui fu costretto a lasciarsi alle spalle sua madre, il suo lavoro e il suo vero amore. Ormai aveva una nuova vita, una nuova moglie e uno squallido appartamento a New York. Molti decenni dopo, eccolo con una famiglia, e una figlia ormai adulta con cui non riesce a comunicare. È diventato un uomo anziano, pieno di ricordi e rimpianti. Moltissimi rimpianti.


Ispirato liberamente al trasferimento del padre dell’autore e alla sua progressiva integrazione al modello di vita americana, l’opera prima dello sceneggiatore e regista Alan Yang sa come rinfrancarti lo spirito con il suo tocco sensibile e, insieme, spezzarti teneramente il cuore. Ex giornalista dell’Harvard Lampoon e membro della writers’ room di Parks and Recreation, l’autore 36enne si è costruito un notevole curriculum nel corso degli ultimi anni: è stato consulente alla produzione per The Good Place e produttore esecutivo di Little America; e, insieme a Matt Hubbard, è stato il responsabile della sapida dramedy ultraterrena Forever con Fred Armisen e Maya Rudolph.

Ma è Master of None, la serie che ha ideato con Aziz Ansari, e in particolare l’episodio intitolato Genitori a fare da spunto iniziale a questo film: si può vedere chiaramente quanto le atmosfere di quella serie abbiano dato forma a quello che Yang fa adesso. Ci sono la stessa attenzione per i dettagli (un vecchio vinile, una piccola tastiera, un piatto non lavato) e una notevole abilità, nel creare la cornice di quella che è una storia di famiglia e, insieme, il ritratto malinconico di un immigrato di prima generazione. Ma, cosa ancora più importante, Yang ha il buon senso di mettere in scena gli snodi più emotivi attraverso il silenzio e di glissare laddove altri autori avrebbero impiegato la massima sdolcinatezza. Ci vuole una mano ben salda per inserire in un film un duetto sulle note di Otis Redding e non farlo risultare stantio. E serve fiducia nella propria sensibilità per mettere insieme la sequenza in cui Pin-Jui apre e chiude il suo negozio di alimentari – il primo lavoro che trova quando arriva negli Stati Uniti, e poi la sua prima attività in proprio – per mostrare al tempo stesso il manifesto dell’American Dream e la reiterazione sfiancante di una vita vissuta solo per il duro lavoro. Le parabole degli immigrati sono tutte diverse, e però sono tutte uguali. Sono insieme personali e universali, e Yang aggiunge la sua voce a questo grande coro. Regalandoci un racconto che è l’esperienza unica e profonda di suo padre; ma facendolo risuonare come se fosse la sua stessa esperienza – e quella di tutti noi.

Gli viene in soccorso, in questo senso, il direttore della fotografia Nigel Bluck, che ha l’abilità di catturare il romanticismo delle epoche passate senza eccedere nell’effetto-nostalgia; e il montatore Daniel Haworth, che rende naturale il passaggio dal Pin-Jui ventenne e pieno di ambizioni al patriarca ormai al crepuscolo; per non parlare del cast, che non avrebbe potuto essere più indovinato. Nei panni dei giovani Pin-Jui e Yuan, Lee Hong-chi e Fang Yo-hsing rappresentano tutto ciò che significa essere giovani, irrequieti ed impetuosi; Lee, in particolare, ci mostra come il protagonista diventi sempre più disilluso, una volta che arriva nella terra promessa. (Ritroveremo invece lo stesso volto familiare di Yuan molto tempo dopo, quando sarà ormai una donna matura: anche se sappiamo che quell’incontro sta per arrivare, è comunque una piacevole sorpresa.) La moglie di Pin-Jui, Zhenzhen, passa dalla performance da ragazza sperduta in un luogo che non conosce della giovane Kunjue Li a quella impassibile e disincantata di Fiona Fu, che la impersona da adulta. La figlia Angela, a cui dà volto Christine Ko, è il ritratto di una donna che ha ormai deposto le armi nei confronti dello stoicismo novecentesco del padre, e che ha rinunciato per sempre a qualsiasi tipo di rapporto con lui. E poi c’è Tzi Ma.

Attore affidabile che per anni ha saputo dare spessore a tutti i progetti a cui ha preso parte (è quello che ingaggi quando c’è bisogno di un generale autoritario, del capo di una fabbrica, o di quell’occasionale tocco esotico), Tzi Ma ha trovato la sua meritata occasione lo scorso anno nei panni del padre di Awkwafina in The Farewell – Una bugia buona. L’interprete che era sempre “quello che ho visto da qualche parte” ha avuto, dopo molti anni, la possibilità di esplorare un personaggio più profondo. La sua straordinaria prova nel film di Lulu Wang fa oggi l’effetto di una prova generale in vista di quest’altro progetto. Il carico di dolore e di rimpianto e, più tardi, la gioia trattenuta e testarda che infonde nell’anziano Pin-Jui lascia senza parole per la sua semplicità: è come vedere qualcuno a cui è sempre stato detto di reprimere le proprie emozioni cercare goffamente di tirarle fuori. Tzi Ma regala a quest’uomo come tanti una sofferta vittoria, grazie a un’espressività fatta di piccolissimi gesti. Tutto ciò che devi sapere di Pin-Jui lo scopri attraverso il suo volto. È lui l’ancora a cui si aggrappa l’intera storia.

Sarebbe ingiusto svelare il finale di Tigertail, anche se è facile prevedere dove questo racconto tenero e sincero andrà a parare. Vi basti sapere che è la perfetta conclusione di tutto quello che si era visto fino a quel momento, che il titolo assume un nuovo significato e che l’ultima inquadratura è, almeno per quanto mi riguarda, una delle più belle del cinema recente. Che Yang sappia padroneggiare il tempo della narrazione e chiudere una storia così ricca e personale anche solo grazie a quell’inquadratura finale è la prova del fatto che il risultato è all’altezza delle sue ambizioni. Sarebbe stato un film bellissimo qualunque fosse stato il momento della sua uscita. Il fatto che arrivi in un periodo in cui il nostro Paese sembra aver dimenticato i suoi valori e la sua umanità rende questo omaggio alle proprie radici ancora più necessario.