The Place, la recensione | Rolling Stone Italia
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The Place: che diavolo di film!

Il film di chiusura della Festa del Cinema di Roma è coraggioso e spiazzante. Non perdetevelo, arriva in sala il 9 novembre

Cos’è il male? Un abisso o uno specchio? E’ dai tempi della strega di Biancaneve che ce lo chiediamo, sapendo bene che è ben riposto e custodito dentro di noi. The Place, tratto dalla serie tv The Booth at the End di Christopher Kubasik (ripescate le due stagioni su Netflix, clamorose), è un’opera ambiziosa e potentissima, che scardinerà qualche certezza e forse troverà anche alcuni scettici.

Perché Paolo Genovese, seguendo quell’evoluzione della commedia all’italiana di un tempo che verso la fine degli anni ’70 ha visto Scola e Monicelli scavare nel buio delle nostre anime e della nostra società, non ha cercato compromessi. Narrativi, visivi, emotivi.

Era un tavolo affollato quello di Perfetti sconosciuti: ci si poteva alzare, ogni tanto c’era una fuga in un’altra stanza, un’assenza. La possibilità di un movimento di macchina, seppur limitato. Qui, no. Qui c’è un tavolo da due, un protagonista silenzioso e dolente, un Valerio Mastandrea che dà a un viso quasi immobile tante sfaccettature imprevedibili, e il suo antagonista di turno. Un bar, inquadrature che si contano sulle dita di una mano, montaggio essenziale, fotografia che gioca sui dettagli, su sfumature di luce, su sprazzi di Hopper, più sui visi che su questo diner senza tempo e senza luogo.

Il punto di partenza è una domanda “cosa saresti disposto a fare per ottenere ciò che desideri?”. Che sia una donna, la salvezza di un figlio, la bellezza, lasciarsi alle spalle un padre, ritrovare l’amore di un figlio o di un marito, il proprio dio o la vista. A farla è un uomo, ordinario, che non dorme mai ed è sempre seduto in un bar. Una grossa agenda come compagna. Non ha nome, passato, identità. Ha solo un compito, esaudire i desideri dei poveri diavoli che vengono da lui. E che si chiedono se sia un diavolo lui stesso. E lo è, ma non vuole l’anima. Non tutta intera, almeno, ne vuole un pezzo, vuole qualcosa in cambio. Azione e reazione.

Più che un diavolo – non risponde mai alle domande, non risponderà neanche a questa -, un demone, anzi un daimon, la manifestazione fisica dell’anima di un individuo. In questo caso, del suo interlocutore di turno. Perché quell’uomo non è l’abisso, ma uno specchio.

Paolo Genovese supera, qui, anche quelle piccole forzature di Perfetti sconosciuti, quelle ruvidezze dovute alla credibilità impossibile di una cena come quella, quelle minime macchinosità: lo fa con una soluzione fantasy, dando per assodato che in quel locale ci sia un burocrate dei desideri, un kafkiano distributore di vite alternative. E che tutti diano per scontato ciò che sia e che riesce a fare. E’ un dentro o fuori: se rimani davanti allo schermo e accetti il gioco – e in fondo non è la sfida più alta e bella del cinema? -, non esci più da un vortice di emozioni, sguardi, parole, sorprese. Nulla accade, tutto viene raccontato. E tu sei lì, a guardare e immaginare, a pensare e capire, a cercare dentro di te ciò che vedi sullo schermo. Tutto è chiaro, anche se non è mostrato.

“Cosa saresti disposto a fare per ciò che desideri?”. Non chiedetevelo

Un capolavoro che viene su davanti ai nostri occhi per il talento di un regista sempre più coraggioso e consapevole, capace di creare un universo con le sole parole, con i soli visi degli attori, con l’indagine su cittadini al di sotto di ogni sospetto. Si fida dello spettatore e del proprio talento, neanche nel finale fa l’occhiolino a nessuno. E con l’ultima scena si regala un grande classico, l’unica concessione allo stereotipo, ma di gran classe.

Anzi, quando scioglie i fili di quelle esistenze sbagliate, lo fa solo apparentemente per il verso giusto. Ma è dentro di noi che capiamo quanto sia profondo il solco che lascia. E la scelta delle vittime è illuminante, nel mondo che viviamo.

Sono straordinari gli attori: Mastandrea ci strappa l’anima con quegli occhi stanchi, quelle frasi apparentemente atone e lapidarie, quei piccoli movimenti che dicono tutto. La sua non è una performance, è una prova d’attore cesellata in ogni minuzia. Godetevelo, perché è il più fragile dei poveri diavoli del film: quando si sorprende del suo “potere”, quando con una smorfia impercettibile sente addosso il peso delle scelte altrui, per come ama tutti i suoi clienti, perché i pochi sorrisi li fa quando scopre d’avere torto.

E la follia generosa di Papaleo, la determinazione sconfitta di Giallini, la dolcezza ingenua della D’Amico, la Rohrwacher che ci porta dentro un’innocenza diabolica, l’erotismo dispettoso della Puccini, la profondità disperata di Marchioni, la sfrontatezza fragile di Silvio Muccino, la linearità di Giulia Lazzarini laddove è impossibile averla (ha forse la scena più bella del film), un Alessandro Borghi che dovreste vedere due volte, una a occhi chiusi e l’altra a orecchie tappate. E Sabrina Ferilli, che ve lo dico a ffà? Se le dai un grande cineasta, ti tira fuori quello che non ti aspetti, quasi animalesca nel sentire il racconto, il personaggio.

Verrebbe pure voglia di fare una graduatoria, tra loro. Ma ogni minuto cambierebbe: pensi a come Mastandrea non ti consenta di odiarlo per un solo attimo, alla rabbia calma di Borghi, al candore nero della Lazzarini, all’ossessività protettiva di Papaleo, alla levità tragica della coppia Muccino-D’Amico, al cinismo arreso della Puccini, a un Marchioni che non si nasconde dietro colui che capiremmo più facilmente e sa portarlo altrove, a una Rohrwacher che ci rende normale ciò che non sappiamo immaginare, a Marco Giallini che ha le spalle così larghe da attraversare, col suo personaggio, le vite degli altri, senza perdere credibilità. Anzi.

C’è tutto in questo film, perché tutti lavorano alla perfezione. Anche i costumi sono la ciliegina sulle fette di torta delle varie caratterizzazioni, così come la scenografia restituisce al film un teatro perfetto.

Non ci siamo dimenticati la sceneggiatura, che qui è puntello, ragnatela, sfondo e centro di tutto: ogni suggestione sembra spingerti dove immagini, poi sei spiazzato un attimo dopo. Non per il puro gusto del colpo di scena, ma perché la scrittura di Genovese (ma qui lo zampino è anche di Kubasik, la sua idea è fondante) ti strappa di dosso il moralismo, il (pre)giudizio facile, ti costringe a entrare in quei panni scomodi. Di chi deve sbagliare per vivere meglio, di chi ha il coraggio di guardare in faccia se stesso, negli occhi di uno seduto in un bar e scoprire il proprio lato oscuro.

Per questo pur di fronte alle proposte indecenti di Mastandrea, Genovese non alza i toni, non sfrutta l’onda lunga dell’indignazione, ma ci dice che tutto può diventare normale se in campo ci sono le nostre vite, i nostri desideri, quei sentimenti che ci hanno insegnato a essere irrazionali fino all’incoscienza. Perché la vita è un tavolo da poker dove bluffi quasi sempre, vinci quasi mai e per avere il mazzo truccato faresti qualsiasi cosa. E per amore, anzi per amare, faresti una guerra.

“Cosa saresti disposto a fare per ciò che desideri?”. Non chiedetevelo. Il prezzo è sempre troppo alto. E spesso, lo avete già.

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