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‘The New Abnormal’ è un inno al lento sfacelo degli Strokes

Il sesto album della band è molto newyorchese e parecchio decadente. Ed è bello proprio per questo motivo. Sembra quasi un congedo: missione compiuta
3.5 / 5

Fino a un mese fa, l’evento traumatico collettivo della mia generazione era l’11 settembre 2001. Tra i tanti aneddoti minori di quel periodo, c’è l’uscita posticipata di un mese del primo album degli Strokes – inizialmente prevista proprio nei giorni degli attentati – e la rimozione dalla tracklist statunitense di un pezzo intitolato New York City Cops.

Is This It è il disco grazie al quale ogni uscita degli Strokes continua ad avere rilevanza ancora oggi, dopo quasi vent’anni, con buona pace dei fan più affezionati che mettono sullo stesso piano anche i due album successivi, che sono buoni, ma non allo stesso livello complessivo. Quel disco d’esordio ha inaugurato una stagione, un millennio se vogliamo, e ha accompagnato, dando vita a tutta una serie di band e di proseliti, una generazione cresciuta lungo due decenni fatti di amarezza, promesse non mantenute, speranze infrante, vuoto pneumatico, crisi economiche, crisi di valori e, limitatamente alla scena musicale, di lento declino del rock’n’roll, di dosi mortifere di revival e retrotopia e di mancanza di una narrazione efficace. In breve: l’indie rock degli anni 2000. Se l’unica narrazione possibile diventa quella sull’assenza di una narrazione stessa, gli idoli non possono che essere dei simulacri insipidi oppure emaciati, stanchi, in affanno, confusi, incazzati, velatamente depressi, preceduti dal senso di colpa.

The New Abnormal è il sesto disco degli Strokes, il primo dopo sette anni passati sostanzialmente a litigare e a scialacquarsi in progetti solisti o paralleli mai realmente decollati. Esce, come sappiamo, durante una pandemia globale, un’emergenza così tanto diffusa e profonda che sarebbe insignificante posticipare l’uscita di un album e che, in qualche modo, chiude il cerchio. C’è un nuovo evento traumatico collettivo a fare da spartiacque generazionale, dal quale usciremo tutti cambiati e che inaugurerà un nuovo mondo. In questo disco pieno di presagi non voluti, gli Strokes sembrano congedarsi: missione compiuta o forse, semplicemente, tempo scaduto. È in arrivo una nuova narrazione, un dopo post traumatico nel quale quest’epoca rivendicherà la propria identità e in ogni canzone sembra di sentire la frase “non abbiamo la forza”.

I tentativi di Casablancas di virare su uno stile weirdo, art, persino synth pop, qualsiasi cosa pur di emanciparsi da ciò che li ha resi grandi fino all’implosione, non sono andati a buon fine e quindi The New Abnormal diventa un inno a questo sfacelo, un inno lento, trascinato, inoffensivo come un pugile stanco e questo è semplicemente meraviglioso. Gli Strokes stanno romanticizzando senza nasconderlo il declino della loro carriera e ci riescono benissimo. I singoli che hanno anticipato questo disco, complice la lunga assenza dalle scene, hanno alzato subito al massimo possibile l’hype attorno alla band, prima con At the Door, un brano depresso e prosaico, in cui il ruolo principale ce l’hanno i synth, tutto il contrario di Bad Decisions, il secondo singolo, una specie di sigla per un teen drama ambientato negli anni ’70, ma prodotto negli anni Zero, in cui i riff, proprio quei riff, tornano sul piedistallo, va bene anche se scopiazzati da Dancing with Myself di Billy Idol.

The New Abnormal è un disco quasi tutto newyorchese, ma fa pensare a un’estate torrida perché è stato registrato a Malibu, l’Eternal Summer ripetitiva e desolata di chi rimane in città o forse l’estate che non vivremo più come prima, falsetti, coretti, riverberi, tutto carino, ma quando Casablancas va fuori giri con la voce capisci di che cazzo di talento si tratta, mentre quattro accordi funk fanno da contraltare al momento migliore del disco assieme a Not the Same Anymore. Poi arriva il gran finale, Ode to the Mets, il commiato della band, il commiato di una generazione: “I vecchi tempi sono andati, dimenticati, è ora di reggersi ai sostegni. Il cubo di Rubik non si risolverà per noi, amici”.

Anche qui Casablancas esce dagli schemi con la voce e a quelli che guardano sempre il bicchiere mezzo vuoto viene da chiedersi: ma perché non lo fa sempre? La risposta sta nella parabola dello stesso Casablancas, sta nel senso che hanno avuto gli Strokes, non c’è una spiegazione o forse la spiegazione è: altrimenti sarebbe troppo facile, no?

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