‘The Eddy’ non è (solo) la serie di Damien Chazelle: e forse anche questo è il problema | Rolling Stone Italia
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‘The Eddy’ non è (solo) la serie di Damien Chazelle: e forse anche questo è il problema

Il drama jazz parigino di Netflix è un lavoro collettivo, fin troppo. Che finisce per mescolare in maniera discutibile lettera d'amore per la musica dal vivo e storie di crimine

André Holland e Tahar Rahim

Chiunque avesse intenzione di immaginare una parodia di come sarebbe stata la prima serie di Damien Chazelle non poteva certo superare l’originale, The Eddy su Netflix dall’8 maggio. Naturalmente il più giovane premio Oscar della storia per la regia (di La La Land) ha debuttato nella Peak TV con un dramma sul jazz, ambientato addirittura in un jazz club parigino. Che naturalmente condivide la stessa filosofia sull’artista inquieto e torturato con Whiplash e il lutto vissuto in maniera stoica come Neil Armstrong nel biopic First Man.

“La musica dovrebbe essere divertente!” sostiene un membro della resident band del club. Questo spinge il leader Elliot Udo (André Holland) – un ex pianista che, a causa di una tragedia, non è più in grado di suonare e lotta per riconnettersi con la figlia adolescente Julie (Amandla Stenberg) – a ribattere: “Non è divertente per me. È tutto ciò che ho!”. Sì, The Eddy è esattamente quello che ti aspetti.

Tecnicamente Chazelle non è il creatore della serie, in realtà nessuno lo è. Non esiste un credit “creata da”, con Netflix a spiegare che è stata “portata sullo schermo grazie a una collaborazione tra Alan Poul, Damien Chazelle, il premio BAFTA Jack Thorne e Glen Ballard (uno che ha sei Grammy all’attivo)”. Chazelle ha diretto i primi due episodi e Poul (produttore di Six Feet Under e The Newsroom, tra gli altri) ne ha curati un altro paio. Ballard, produttore del mitico debutto di Alanis Morissette, Jagged Little Pill, ha scritto le canzoni originali e ha contribuito a mettere insieme la band, per lo più interpretata da veri musicisti. Thorne invece è lo sceneggiatore principale, che di solito è la persona indicata come creatore di una serie. Un malizioso potrebbe chiedersi se The Eddy abbia evitato quel credit – una rarità per uno show che non si basa su una proprietà preesistente – per pompare il coinvolgimento di Chazelle in una serie di cui, invece, potrebbe essere stato soltanto un esecutore.

The Eddy | Official Trailer | Netflix

Indipendentemente dai meriti – o dalle colpe –, lo show sembra filtrare le ossessioni spesso drammatizzate da Chazelle attraverso lo stile dark e estremamente curato che Thorne ha infuso nel suo adattamento di His Dark Materials. Proprio come la serie fantasy HBO è riuscita a presentare un mondo con orsi corazzati parlanti e portali per altre dimensioni che a volte erano vivaci come un salto all’ufficio postale, così anche The Eddy diventa sempre più cupo a ogni svolta. All’inizio il carattere silenzioso di Elliot è bilanciato dall’esuberanza del suo migliore amico e socio in affari, Farid (Tahar Rahim), ma lo show si allontana rapidamente da Farid per concentrarsi su una storia torbida di soldi falsi e scomode alleanze tra il business della musica e la criminalità organizzata.

La trama sulla mafia è il solito nonsense drama in cui il protagonista continua ad affondare sempre più a ogni tentativo di uscire dal caos. È come se Thorne e i suoi collaboratori in quelle scene sentissero di dover aggiungere altri riff populisti per convincere la gente a sedersi attraverso le sezioni libere e sconnesse che assomigliavano più allo stile musicale di Elliot. È come se qualcuno guardasse Tremé e suggerisse che sarebbe stato un successo se solo fosse stato più simile a Sons of Anarchy. Potenzialmente la storyline sul crimine potrebbe funzionare da sola – Holland ha fatto molto rumore, anche se in un contesto meno mortale, nel film Netflix High Flying Bird di Steven Soderbergh – ma le due parti di The Eddy non si amalgamano per niente. Il flusso della versione che sembra Ozark con sottotitoli qua e là (*) continua ad essere interrotto da lunghe esibizioni della band, mentre il formidabile senso dell’atmosfera che Chazelle, Poul e gli altri registi creano si spegne ogni volta che Elliot si allontana per avere a che fare con poliziotti loschi o gangster.

(*) Elliot è bilingue e la band è internazionale. Si parla principalmente inglese ma c’è anche parecchio francese e, a volte, pure altre lingue.

Joanna Kulig e la resident band del club

The Eddy funziona meglio quando è incentrato sulla musica, sulla cultura e sulla complicata relazione tra Elliot e Julie. E poi racconta una parte di Parigi che non vediamo spesso sullo schermo. Le finestre degli appartamenti dei personaggi non si affacciano sulla Torre Eiffel e non ci sono conversazioni romantiche lungo la Senna. Molti dei protagonisti – tra cui Farid, sua moglie Amira (Leïla Bekhti) e il garzone Sim (Adil Dehbi) – sono musulmani. La città sembra reale, lontana dalla sua immagine da cartolina, eppure lo show è consapevole di andare contro corrente rispetto all’idea che Parigi vuole mostrare di sé; Farid non può ottenere un prestito per il club in difficoltà perché, gli viene detto, “non è abbastanza francese”.

Che sia abbastanza francese o no per l’establishment, The Eddy è un posto vivace che può davvero emozionare quando la band si esibisce. La serie lascia spazio alla riproduzione completa delle canzoni, a volte in un take singolo per mostrare la reazione entusiasta del pubblico (oppure meno entusiasta, quando la band non è al suo meglio). In quei momenti, o quando l’intera comunità jazz locale si riunisce per commemorare uno dei suoi, il potere che la musica ha su queste persone e l’amore che provano per essa diventa abbastanza contagioso da superare l’indecisione di Elliot sulla sua arte.

È un ruolo ingrato per Holland – Elliot è quasi sempre arrabbiato o dolente –, che l’attore però riesce a far brillare nelle scene da padre con Stenberg. Se lo show fosse stato incentrato solo su Elliot contro i gangster, Julie sarebbe stata l’irritante mina vagante che, con la sua ingenua ribellione, avrebbe continuato a far precipitare lei e suo padre in guai sempre più grossi. E succede qua e là, ma la serie è più interessata a come padre e figlia affrontano il loro passato e la sensazione di non appartenere davvero a nessun luogo. Elliot dà a Julie una copia di The Price of the Ticket di James Baldwin e parla con lei della grande storia delle persone di colore a Parigi. Ma ammette anche che, durante la sua carriera, ha sentito la pressione di dover fare musica per bianchi. Ci sono diverse scene tra loro – in particolare una in cui discutono del significato più profondo del cambio di pettinatura di Julie – che sono osservate in modo così acuto e toccante, da rendere ancora più frustrante la qualità schizofrenica del resto di The Eddy.

Amandla Stenberg e André Holland

Come ci si potrebbe aspettare, la stagione si sviluppa da un’importante esibizione al club e da un’interazione tra Elliot e Julie centrale per la storia. Queste sequenze non ci fanno esattamente dimenticare la confusione precedente, ma almeno ripagano chi ha resistito a tutto il resto. E poi, naturalmente, la trama del crimine si intromette di nuovo, facendo deragliare qualsiasi momento emotivo.

In questo senso, la bizzarra definizione “portato sullo schermo grazie a una collaborazione” fa venire in mente il vecchio detto inglese “A camel is a horse made by a committee” (un cammello è un cavallo disegnato da un comitato). Il brainstorming del singolo ha un senso da solo, ma prova a metterli tutti insieme e avrai qualcosa di un po’ goffo.

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