‘Space Force’ non è un nuovo ‘The Office’ (purtroppo) | Rolling Stone Italia
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‘Space Force’ non è un nuovo ‘The Office’ (purtroppo)

In questa nuova serie firmata da Greg Daniels e basata sul sesto ramo (quello interstellare) dell’esercito americano proposto da Trump, il generale di Steve Carell è quasi troppo odioso per essere vero

Steve Carell e John Malkovich

Foto: Aaron Epstein/Netflix

Ora che è diventata una delle serie comiche più amate di sempre, e dalle generazioni più diverse, fa un certo effetto ricordare che The Office non venne accolta benissimo, quando fece il suo debutto sulla NBC nella primavera del 2005. Non dipendeva solo dal fatto che il mockumentary fosse un format ancora relativamente troppo all’avanguardia per la tv americana, ma anche dal fatto che l’idea originale alla base del personaggio di Michael Scott fosse molto più scorretta e irritante di quello che sarebbe poi diventato. In particolare, la scena nell’episodio pilota – una replica esatta dell’incipit inglese firmato Ricky Gervais e Stephen Merchant — in cui Michael fingeva di licenziare Pam per farle uno scherzo lo rendeva immediatamente un villain assoluto, più che un antieroe comico. Stando alla prima stagione, più breve delle altre, era difficile immaginare che quell’approccio a Michael avrebbe prodotto sul lungo termine un tale fenomeno di cultura pop, tra le serie televisive degli ultimi anni.

Fortunatamente è toccato a Greg Daniels, tra le menti più talentuose e influenti della commedia degli ultimi trent’anni, l’ingrato compito di tradurre il lavoro di Gervais e Merchant. Daniels ha scritto alcune delle migliori puntate dei Simpson (incluse Homer e Apu, Il matrimonio di Lisa e Homer l’acchiappone); ha co-creato la magnifica e profetica comedy d’animazione King of the Hill; e, successivamente, pure l’incredibile Parks and Recreation. Non è uno stupido, insomma, e, quando partì la seconda stagione di The Office, capì che ciò che funzionava con Gervais nei panni di David Brent non faceva lo stesso effetto con Steve Carell in quelli di Michael. Ha dunque smussato gli aspetti più grevi del comportamento di Michael, motivando il suo arco psicologico – laddove David cercava attenzione, Michael desiderava una famiglia – per renderlo teneramente perfido, più che sgradevolmente perfido. (Almeno il più delle volte: come dimenticare il cattivissimo episodio Scott’s Tots.) Fu così che The Office divenne un’istituzione.

15 anni dopo l’esordio della versione americana di The Office, Daniels e Carell si sono ritrovati per dare vita a Space Force, la nuova serie comica di Netflix. Carell interpreta Mark Naird, un generale pluridecorato la cui missione è trasformare in realtà il nuovo ramo dell’esercito statunitense che al momento è solo un’ipotesi. Nessuno dei suoi sottoposti vuole finirci – un po’ perché, ispirandosi agli aviatori dell’Air Force, si fanno chiamare “spacemen” – e, soprattutto, nessuno nella catena di comando sa quel che sta facendo. Sulla carta, sembrava una sorta di The Office nello spazio, una cosa che i due avrebbero dovuto padroneggiare molto bene, dopo così tanti anni di lavoro insieme.

Eppure, sembra che Daniels e Carell abbiano dovuto imparare daccapo la lezione di Michael, e per di più su una scala molto più vasta. Col risultato che Space Force risulta, nel migliore dei casi, spiacevole da guardare. Mark Naird non è esattamente un Michael Scott 2.0. Ha una moglie, Maggie (una Lisa Kudrow in modalità part-time), una figlia adolescente, Erin (Diana Silvers), ed è molto più aggressivo e sicuro di sé di quanto Michael non sia mai stato. È un militare tutto d’un pezzo; quando Maggie lo rimprovera di essere troppo rigido, lui replica: «Posso essere più elastico, se me lo ordinano». Ma il modo in cui Naird viene descritto nella maggior parte degli episodi – ovvero: uno stronzo totalmente ignorante, per non dire bigotto – fa tornare purtroppo in mente la prima stagione di The Office, quando Michael era del tutto insopportabile. E, peggio ancora, se il potere di cui disponeva Michael era estremamente limitato, Naird è invece alla guida di un intero comparto militare, con miliardi di dollari soggetti ai suoi capricci bizzarri. Non ci vuole molto perché il vostro livello di esasperazione diventi pari a quello dello scienziato-capo Adrian Mallory (John Malkovich), che, ogni volta che ha una buona idea, viene fatto a pezzi da quell’imbecille del protagonista, il quale non solo non vuole sentire ragioni, ma non sembra nemmeno credere nei dati che gli vengono sottoposti. Questo suo atteggiamento testardo e distruttivo basterebbe a rendere Space Force una serie a cui è difficile appassionarsi anche se tutti gli altri elementi che la compongono trovassero un equilibrio tra loro. Ma ci sono troppi esempi in campo a dimostrare l’incredibile enormità di talento e soldi sprecati.

Il cast comprende Ben Schwartz (lo stupido statistico della Space Force, nonché esperto di social media), Jimmy O. Yang (uno scienziato le cui origini asiatiche danno modo agli altri personaggi di sparare battute razziste a caso), Tawny Newsome (la pilota personale di Naird), Don Lake (l’inutile assistente di Naird), Jessica St. Clair (la costruttrice che vince l’appalto per la realizzazione della base segreta della Space Force), il compianto Fred Willard (l’anziano padre di Naird) e, nei panni dei capi degli altri team, Noah Emmerich, Diedrich Bader, Jane Lynch e Patrick Warburton. Una notevole galleria di interpreti, ma utilizzati nei modi più insulsi e superficiali.

E la portata degli ingredienti impiegati fa sembrare The Office un video di TikTok, al confronto. C’è un gran dispendio di effetti speciali – nel secondo episodio si vede persino un “scimp-astronauta” che cerca di aggiustare un satellite guasto, mentre alcuni dei personaggi finiscono sulla luna (*) – e l’enorme campus dello Space Force (nascosto dentro una montagna del Colorado) è un notevole lavoro di scenografia. Ma, come ha dimostrato anche la comedy interstellare Avenue 5 su HBO, lo sfoggio di tutti quei soldi sullo schermo rischia di restare un divertimento fine a se stesso. Lo stile ricorda quello della magnifica farsa spaziale Il dottor Stranamore, ma il risultato finisce per risultare convulso e artificioso. E se molte delle battute sull’attuale amministrazione funzionano – il Presidente degli Stati Uniti non viene mai chiamato per nome, ma è descritto come un uomo impulsivo, immaturo e facilmente influenzabile da parte dei russi; il nome del personaggio di Schwartz riecheggia quello di Anthony Scaramucci (l’ex capo della comunicazione della Casa Bianca, ndt); e c’è pure una battuta sullo smantellamento delle Poste (in riferimento a una vecchia affermazione di Trump, ndt) – è soprattutto perché il loro approccio alla cronaca non va oltre il puro e semplice: «Non è tutto una vera e propria idiozia?».

(*) La verità è più assurda della finzione: si è fatto un gran parlare del fatto che Neil Armstrong e Buzz Aldrin avessero piantato la bandiera americana nel Mare della Tranquillità troppo vicino alla loro astronave, col risultato che, quando sono ripartiti, il motore ha fatto cadere la bandiera, rimasta dunque distesa tra i detriti lunari per più di cinquant’anni.

Il climax iniziale, con Naird che per un momento sembra svelare il suo lato interiore, entra completamente in conflitto con il suo comportamento nei 25 minuti precedenti. Queste scene sono convincenti tanto quanto i commoventi monologhi alla fine degli episodi di Modern Family, che mostravano quanto ogni personaggio disprezzasse la sua metà. Ma almeno dimostrano che Daniels e Carell (che all’epoca scrisse due bellissime puntate di The Office: Casino Night e Survivor Man) hanno capito fin dove si può spingere il comportamento di Mark (*).

(*) Michael, tra un episodio e l’altro, era scritto in maniera a volte incoerente, ma i suoi occasionali lampi di sincerità e saggezza non stonavano rispetto al resto, mentre gli improvvisi monologhi interiori di Mark suonano del tutto scollati da ciò che lo circonda. E in una scena Mark, in un attimo di debolezza, si mette a cantare da solo: ma sembra più l’occasione per Carell di ricreare la sequenza sulle note di Afternoon Delight in Anchorman, piuttosto che qualcosa che Mark farebbe davvero, soprattutto se messa in relazione con il resto della serie.

Nella seconda metà di Space Force, gli sceneggiatori portano il carattere di Mark su livelli molto più umani, per non dire empatici, e si concentrano maggiormente sui personaggi secondari. (Tra Newsome e Yang nasce una bella amicizia, che potrebbe diventare qualcosa di più, e Malkovich si mette a fare cose che non sono solo alzare gli occhi di fronte al protagonista.) C’è ancora uno squilibrio di toni, non solo perché Mark passa dall’essere un cattivo guastafeste a un imbranato di buone intenzioni, ma anche perché la serie si prende il gusto della parodia ispirata: basti la scena alla Apollo 13. Non è che sul finale Space Force diventi così divertente, ma è più piacevole da guardare, e lascia intendere che una seconda stagione migliore di questa è possibile, esattamente come ha dimostrato in passato The Office.

Ma allora, com’è potuto succedere tutto questo? Perché un tale spreco di soldi e talento? Nelle note diffuse alla stampa, Carell spiega che l’idea della serie non è nata da lui o da Daniels, ma da un gruppo di dirigenti di Netflix: «Non c’era nessuna serie e nessun soggetto: c’era solo il titolo. Netflix mi ha chiesto: “Vuoi fare una serie intitolata Space Force?”. E io ho subito risposto: “Certo che sì! Suona bene”. Perciò ho chiamato Greg e gli ho detto: “Ehi, vuoi fare una serie che si chiama Space Force?”. E lui ha risposto: “Sì, suona bene. Facciamola”. Davvero non c’era nient’altro, ma quel titolo faceva ridere tutti». Non è impossibile creare una grande serie a partire da un esile brainstorming tra dirigenti di un network – Lost è esistito semplicemente per il fatto che il capo della ABC Lloyd Braun avesse chiesto un copione che fosse a metà tra L’isola dei famosi e Cast Away –, ma in questo caso sembra che nessuno avesse la più pallida idea di cosa fare con quel titolo. Forse sarebbe andata meglio se Carell e Daniels si fossero ricordati di Michael Scott, e della prima volta in cui avevano lavorato insieme.

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