Solange non ha mai dimenticato Houston | Rolling Stone Italia
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Solange non ha mai dimenticato Houston

'When I Get Home', il quarto album in studio della sorellina di Beyoncé, è un disco vago, rarefatto e bellissimo, senza singoli né ritornelli. La consacrazione di un'artista totale, a suo agio sia nelle sale del Guggenheim che nelle playlist di Spotify

Solange Knowles

When I Get Home, il quarto album in studio di Solange Knowles, è un disco bizzarro, evanescente, incompleto, estemporaneo, e bellissimo. Non ha singoli, e nemmeno ritornelli. Più che al precedente A Seat at the Table somiglia a una delle performance che la sorellina di Beyoncé ha portato al Guggenheim e alla Tate Modern di Londra. È uscito a sorpresa il 1 marzo, giusto in tempo per la fine del black history month e l’inizio del national’s women history month, e per produzione, parterre di ospiti, coordinate geografiche e musicali, fa di tutto per presentarsi come il punto d’incontro tra i vari percorsi che hanno attraversato la black music negli ultimi anni.

Registrato tra New Orleans, la Giamaica e il Topanga Canyon in California, con l’aiuto di un esercito di ospiti saggiamente diviso tra mostri sacri e next big things della musica urban – Pharrell Williams, Devonté Hynes, Tyler, the Creator, Sampha, Playboy Carti, Panda Bear, Earl Sweatshirt, Gucci Mane e così via -, When I Get Home è composto da 19 brani, di cui 6 interludi. Tutti hanno come sfondo il Third Ward di Houston, il quartiere dove le sorelle Knowles sono cresciute e che negli anni ’60 è stato uno degli epicentri delle lotte per i diritti civili. I testi, scarni ed essenziali, spesso ridotti alla ripetizione ossessiva del titolo, parlano di libertà, sogni, disillusioni e black empowerment.

Un fotogramma del film che accompagna ‘When I Get Home’. Lo potete vedere su Apple Music

Guardare a When I Get Home solo come a un disco politico, però, significa incastrarlo in un campionato dove non vuole giocare davvero. Le tematiche “impegnate” ci sono tutte, è vero, ma sono sempre accennate, nascoste in testi rarefatti e ripetitivi, una via di mezzo tra il soul anni ’70 e una certa tensione futurista. When I Get Home è un disco davvero vago, e davvero bello. Va ascoltato alla goccia, tutto insieme, perdendosi nelle transizioni che mescolano le canzoni una dentro l’altra – quella tra tra Jerrod e Binz è clamorosa -, come se non potessero sopravvivere se non collettivamente. «Ho capito che se mi fossi fatta da parte, il mio lavoro sarebbe stato molto più ampio, sia figurativamente che letteralmente», ha detto.

Questo è un album frutto di un ragionamento musicale chiaro, una scelta di metodo definitiva che non ha risparmiato nessuno, nemmeno gli ospiti. Che sono tanti e prestigiosi, l’abbiamo detto, ma mai vere e proprie guest. Sono più cambi di formazione, equilibrismi che tengono insieme l’afro jazz e il rap, Herbie Hancock e Gucci Mane, il contrabbasso e la codeina. Gran parte del merito va proprio a Solange, che spesso fa un passo di lato, sveste i panni dell’alternative popstar e indossa quelli della maga di corte, che una canzone dopo l’altra ci presenta i misteri del regno, e i segreti della sua Houston immaginaria.

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