Valerie June, la recensione di 'The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers' | Rolling Stone Italia
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Se volete scoprire come suona il folk nello spazio, ascoltate Valerie June

Orchestrazioni in stile Stax, saggezza blues, roots rock, programmazioni: in ‘The Moon and the Stars: Prescription for Dreamers’ una delle voci più belle del folk trova la sua dimensione

Valerie June

Foto: Renata Raksha

Valerie June ha passato gli ultimi dieci anni a cercare di definire la sua arte. È esplosa con Pushin’ Against a Stone, l’album del 2013 che ha trasformato la sua voce in una delle più vitali della scena country contemporanea. Co-prodotto da Dan Auerbach e Kevin Augunas (Edward Sharpe, The Lumineers), l’album la faceva sembrare come un anacronismo rispetto al boom del folk post Mumford e da allora June ha cercato di liberarsi di quella immagine. Ha aspettato quattro anni per pubblicare The Order of Time. Quel disco metteva in scena un cambiamento, con esperimenti che l’hanno portata lontano dalla roots music, a “ballare sul piano astrale”, come cantava all’epoca.

Ora, con The Moon and the Stars: Prescription for Dreamers, June è finalmente sé stessa. Il disco mischia ambizione pop, onestà folk e saggezza blues. Nel giro di 14 tracce, di cui June è anche co-produttrice (insieme a Jack Splash), appaiono batterie programmate contemporanee, orchestrazioni classiche, decorazioni afrobeat, oltre alle fondamenta del suo suono: country folk, r&b e roots rock. La sua voce non è mai stata così agile: fragile in un momento (Fallin), atletica in un altro (Stay).

Sono canzoni meditative e impressioniste, a volte addirittura anti-narrative. Within You e Stardust Scattering evocano i Beatles mistici dell’era di Revolver (“Vivere felici è solo un sogno / la coscienza dirige il flusso”, canta) e le rivelazioni zen di Leonard Cohen (“There’s a flow to everything”, dice nel verso immediatamente successivo).

Nella maggior parte dei casi, June parla e lavora ispirandosi all’eredità spirituale e musicale di icone come Sister Rosetta Tharpe, la chitarrista Jessie Mae Hemphill e la leggenda del soul Carla Thomas, che fa addirittura un cameo in Call Me A Fool. La canzone è un evidente richiamo alla Stax, uno dei sette brani che mettono in campo l’arma segreta del disco: Lester Snell, noto arrangiatore di Memphis, che qui cura le sezioni d’archi.

June scrive usando una strana e commovente seconda persona singolare e il “tu” a cui parla può essere tante cose diverse, spesso contemporaneamente: June stessa, un amante, il divino. Anche mentre esplora l’orizzonte della sua spiritualità, uno dei temi centrali di tutto il disco, si rifiuta di definirlo esplicitamente. “Alcuni la chiamano preghiera”, canta nella filastrocca conclusiva Home Inside, “sarei matta a lasciare che abbia un nome”.

The Moon and Stars sembra soprattutto un disco sulla perseveranza, la sopravvivenza e l’accettazione di sé, su come superare le cicatrici. “Contate i miei errori e moltiplicateli”, canta nella ballata eterea Colors e più avanti, nell’ariosa Smile, trasforma un classico ritornello pop (“I’ll make it through”) in un mantra.

Poi c’è Why The Bright Stars Glow, la penultima traccia del disco e il suo cuore tematico. È una ballata calda al pianoforte, il ritratto di una grazia e di un appagamento difficili da conquistare. June riflette sulla lunga strada che l’ha portata fin qui, accompagnata dagli archi avvolgenti di Snell e i gentili loop di batteria di Splash. Dove l’ha portata il viaggio sul piano astrale? A June bastano poche parole per rispondere a una domanda così difficile: “A ballare dentro il sole”.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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