'Saint Cloud' di Waxahatchee è una mappa per la guarigione | Rolling Stone Italia
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‘Saint Cloud’ di Waxahatchee è una mappa per la guarigione

Nel primo album scritto dopo aver smesso di bere, l'americana Katie Crutchfield canta di ossessioni e dipendenze ed evoca le proprie radici sudiste

Katie Crutchfield ha sempre avuto la capacità di cogliere i più impercettibili cambiamenti di umore. “I watch you anxiously / You paint it celestial, you paint it serene”, cantava in Poison, dall’album del 2015 Ivy Tripp, facendo suonare la serenità come un campanello d’allarme. Nel suo ultimo album, Saint Cloud, la cantautrice 31enne passa dalle nevrosi indie rock del lavoro precedente a suoni più morbidi che rimandano alle sue radici che affondano a Birmingham, Alabama. Il tempo ha reso ancora più ficcanti il suo spirito di osservazione: “I have a gift, I’ve been told, for seeing what’s there,” ci avverte in The Eye. Sotto il suo sguardo, un tramonto implica una distruzione – “West Memphis is on fire in the light of day” –  e l’amore marcia verso il luogo del suo eterno riposo, qualunque esso sia. 

Da quando ha lanciato il suo progetto Waxahatchee, Crutchfield ha scelto un paesaggio sonoro diverso per ogni album. Il debutto American Weekend (2012) era una trasmissione lo-fi; Cerulean Salt (2013) mischiava produzioni dal suono acquatico al sostegno di una band; Ivy Tripp (2015) aggiungeva drum machine e sintetizzatori; Out in the Storm (2017) era grunge urlato, con chitarre da palasport alimentate dalla fine amara di una relazione. Ciò che teneva insieme tutti questi album tra loro diversissimi era il talento di cantautrice di  Crutchfield, i suoi testi chiari e onesti, e in Saint Cloud le sue parole si sposano perfettamente con composizioni musicali solari. Prodotto con Brad Cook, il disco rimanda a una delle eroine di Crutchfield, Lucinda Williams, e allo storytelling melodico di cantanti folk come Patty Griffin. Sono canzoni che si possono ascoltare in auto di giorno durante un road trip, ma anche la sera intorno a un falò.

Crutchfield ha buone ragioni per assumere questo tono contemplativo: è il primo album che registra da quando ha smesso di bere. Dopo il fiero e rabbioso Out in the Storm, poteva facilmente arivare un seguito blando e orecchiabile. Invece Crutchfield tira fuori le sue ossessioni e le sue dipendenze e si chiede cosa vuol dire essere guariti ed essere ancora in corso di guarigione. “Tomorrow could feel like a hundred years later, I’m wiser and slow and attuned”, canta in Fire. In Lilacs, presenta il suo processo di graduale maturazione come qualcosa allo stesso tempo grandioso e da nulla. “And the lilacs drink the water / And the lilacs die”, canta semplicemente, prima di riconoscere le sue debolezze. “I get so angry, baby, at something you might say”. L’aggettivo “selvaggio” compare non più di cinque volte in tutto il disco e Crutchfield lotta perennemente con l’idea di liberarsi di una parte di sé che un tempo considerava indispensabile. 

C’è una nuova ricchezza nella voce di Crutchfield, che smussa i punti più emotivi; quando canta “lit up behind a sunbeam,” in The Eye, la fa suonare come una frase gioiosa presa da un pezzo gospel e piazzata in un brano acustico altrimenti tranquillo. Il modo in cui canta Oxbow trasforma il brano in una sorta di salmo, facendo sì che il mantra accompagnato dal piano “I want it all” suoni più rassicurante che inquietante. In Can’t Do Much, un’ode al fastidio di innamorarsi di qualcuno, la perdita di controllo non la preoccupa. “I give it to you all on the dime / I love you till the day I, love you till the day I, love you till the day I die… I guess it don’t matter why”.

La scrittura di Crutchfield è stata spesso descritta come “terrena” perché sinceramente connessa alla realtà (questa cosa si riflette anche nel nome: il progetto musicale di Crutchfield si chiama Waxahatchee per il fiume Waxahatchee, vicino a dov’è cresciuta, e questo disco si chiama come la città dov’è nato suo padre in Florida). Ma in Saint Cloud ci sono più dettagli che mai, amplificati da una strumentazione che sembra raccolta al lato della strada. In Witches Crutchfield lascia i confini delle relazioni personali individuali e cerca sicureza e catarsi nel rapporto con i compagni di tour: la ballerina Marlee Grace, Lindsey Jordan degli Snail Mail e la sua compagna di band nonché sorella gemella AllisonLa bellissima Arkadelphia si fa strada tra le caratteristiche di una piccola città del passato – bandiere americane, sedie sulle verande, cassette di pomodori a 5 dollari – nella speranza di trovare risposte ai demoni del presente. “We try to give it all meaning / Glorify the grain of the wood,” canta Crutchfield. E conclude attenendosi all’unico piano che abbia mai funzionato: continuare a guidare e continuare a cercare. 

Saint Cloud tratta con cautela i temi della morte e della vecchiaia per poi metterli in rilievo nelle ultime due tracce. Ruby Falls immagina un funerale lungo i fiumi dell’infanzia di Crutchfield, mentre lei ricorda a se stessa che la compassione e la fiducia hanno la capacità sia di distruggere una persona che di ricostruirla. “You might mourn all that you wasted, that’s just part of the haul”, ci dice. L’ultima traccia, Saint Cloud, con il solo accompagnamento di un pianoforte, un sintetizzatore e una chitarra, all’inizio sembra un biglietto d’addio, ma porta con sé anche una promessa: bruciare lentamente, invece che tutto in una volta. “If the dead just go on living, well there’s nothing left to fear”, canta Crutchfield e non sembra rassegnata, ma piena di speranza.

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