‘Roma’ è il capolavoro di Alfonso Cuarón | Rolling Stone Italia
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‘Roma’ è il capolavoro di Alfonso Cuarón

Un'opera d'arte non può essere messa in discussione da come o dove la guardiamo, se al cinema o su Netflix. E questa è una vera opera d'arte.

Se una cosa bella è una gioia per sempre, per citare John Keats, allora la superba bellezza e il coraggioso splendore di Roma di Alfonso Cuarón non cadranno mai nel dimenticatoio. Non finché ci sono persone che amano il cinema o finché c’è Netflix, la piattaforma di streaming (con oltre 137 milioni di abbonati) che ha portato il film a Venezia e dove sarà possibile vederlo dal 14 dicembre, ma non prima di un passaggio al cinema, dal 3 al 5 dicembre, grazie alla Cineteca di Bologna. In altre parole, il memoir semi-autobiografico di Cuarón sulla sua infanzia degli anni ’70 in Messico, girato in bianco e nero senza un cast di stelle e con tutti i dialoghi in spagnolo avrà la possibilità di allargare le proprie ali oltre il soffitto indie.

Mettetemi tra i cinefili che affermano che questa meraviglia widescreen non avrà mai la stessa efficacia che ha in una sala cinematografica al buio di fronte a tutte quelle persona. Ma un’opera d’arte non può essere messa in discussione da come o dove la guardiamo – e questa è una vera opera d’arte. Cuarón già realizzato grandi film, tra cui La piccola principessa (1995), Y Tu Mama Tambien (2001), Children of Men (2006) e i blockbuster Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban (2004) e Gravity (2013), per cui è diventato il primo regista messicano a vincere un Oscar. Ma Roma è il capolavoro di Cuarón, il suo pianto dal cuore e un nuovo punto di riferimento nel cinema personale.

La trama è gestita con delicatezza al punto che la sceneggiatura è stata tenuta nascosta agli attori, per lo più non professionisti, fino al giorno delle riprese. Cuarón voleva che il pubblico sentisse il caos della vita di Roma, il raffinato quartiere di Città del Messico dove è cresciuto. Può sembrare strano che un film basato sugli anni formativi di Cuarón contenga così poco di lui e dei suoi tre fratelli. Ma invece di limitarsi agli aspetti della sua vita familiare, il cineasta va oltre per guardare al mondo.

All’inizio sembra che la madre Sofia (Marina de Tavira) sia il centro di questa famiglia vivace, appartenente alla classe medio-alta, con il sollievo comico di un cane che semina un bel po’ di escrementi in cortile e le capacità di guida notoriamente terribili della matriarca. Ma Sofia è chiaramente distratta dal marito medico Antonio (Fernando Grediaga) che è un donnaiolo e dal peso di tenere nascoste le sue infedeltà ai figli. La responsabilità di allevare i bambini ricade su Cleo (Yalitza Aparicio, sublime e piena di anima), la cameriera/governante/cuoca/babysitter/pacificatrice. È lei – una forza timida e silenziosa della natura – che Cuarón onora nel suo film, e la sua grinta e grazia sono meraviglie da vedere. Aparicio, un’insegnante d’asilo di origini mixteche, non ha mai recitato prima di questo film, ma potrebbe insegnare a chi lo fa da una vita le sottigliezze del mestiere.

Cleo è il cuore pulsante di Roma, così com’è la lente attraverso la quale il regista proietta i suoi ricordi del passato in un tumultuoso presente in cui domande su razza, classe, violenza e umanità assediata continuano a riverberare. Dalla scena iniziale di Cleo che strofina il vialetto d’ingresso e l’acqua piena di sapone che riflette un jet in volo sopra la sua testa, il film suggerisce come gli eventi si intromettano in questa famiglia tutt’altro che idilliaca. Vediamo le vacanze nella tenuta di un amico, dove gli ospiti ascoltano la colonna sonora di Jesus Christ Superstar e uno zio amante delle armi organizza una sparatoria. Più tardi, la natura ruggisce quando scoppia un incendio boschivo a Capodanno e le fiamme illuminano il cielo notturno rivelando adulti, bambini, cani e animali selvatici sparsi ovunque mentre gli ospiti formano una brigata con i secchi per estinguerlo.

In contrasto con la grandiosità visiva di quella scena, il film si sforza di mostrarci Cleo nelle sue ore libere, quando accompagna la collega Adela (Nancy Garcia) a un appuntamento galante in una Città del Messico brulicante di vita. La nostra eroina inizia a uscire con Fermin (Jorge Antonio Guerrero), un esperto di arti marziali, che rimane nudo dopo aver fatto l’amore, usando l’asta della doccia per vantarsi delle sue abilità di brandire bastoni. E che sparisce quando Cleo gli annuncia di essere incinta. Dopo aver cercato quel fannullone fino a una seduta militante di allenamento all’aperto, la protagonista va incontro a un rifiuto ancora più grande.

E, determinata a far nascere la sua bambina, Cleo sta per acquistare una culla quando scoppia una rissa nelle strade e un gruppo di soldati messicani d’élite, conosciuti come Los Halcones, abbattono gli studenti che manifestano. Il regista mette in scena il famigerato massacro di Corpus Christi, visto da una finestra al piano superiore del negozio di mobili, con una retata che è tanto mozzafiato quanto brutale. Quando le si rompono le acque nella mischia, Cleo si precipita in ospedale, sentendosi abbandonata durante un parto straziante che farebbe piangere anche un sasso.

Non ci si dimentica nemmeno per un attimo che Cuarón è un cineasta di livello mondiale, uno che è pienamente padrone del mestiere e capace di creare un film che è allo stesso tempo epico nella portata e intimo come un sussurro. Ha anche deciso di curare la fotografia in prima persona, quando il premio Oscar Emmanuel “Chivo” Lubezki non ha potuto lavorare a Roma. Le immagini sono incantevoli, lasciano a bocca aperta. Girando un film sul passato con la più moderna tecnologia digitale e con il sound design più sofisticato, Cuarón crea una miscela di ieri e oggi che raggiunge miracoli tecnici. Vede gli eventi del film con una chiarezza penetrante, in long take con i personaggi che si muovono in quella sua cornice onnicomprensiva. Ma non confondete la sua distanza per una mancanza di sentimento. Come il film stesso, Cleo non chiede mai compassione, ma fidatevi, le lacrime vi scenderanno comunque.

Il suo amore per Cleo, la seconda madre che da bambino dava per scontato, irradia attraverso ogni fotogramma – specialmente durante la gita al mare, dove Sofia racconta ai suoi figli che il padre se m’è andato di casa per sempre. Questo trauma si intensifica quando due dei ragazzini si lasciano trasportare dalla marea e Cleo, spaventata, nuota per salvarli dalle onde. Durante il viaggio di ritorno in macchina, guarda fuori dal finestrino, i suoi occhi sono uno specchio di quanto questa famiglia sia e non sia la sua. Se l’uomo dietro a questo film non ha visto la donna che l’ha allevato come un eroina prima, lo fa sicuramente adesso.

E raccontando la sua storia nel contesto di una famiglia distrutta che sopravvive in un mondo distrutto, le ha tributato il più grande e sentito degli omaggi. Cuarón è andato ben oltre l’abbattimento delle barriere linguistiche, culturali e di classe per fare il miglior film dell’anno. Indipendentemente dal fatto che vediate Roma al cinema o su Netflix, questo capolavoro segna un punto di svolta che sta scrivendo la sua, di storia.