Rihanna – ANTI | Rolling Stone Italia
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Rihanna – ANTI

Leggi la recensione dell'ultimo disco di Rihanna su RollingStone.it

Per buona parte del 2015, i continui posticipi e la mancanza di un’informazione attendibile hanno trasformato Anti di Rihanna in una creatura mitologica. Ora che il disco è diventato reale, possiamo prendere l’ottavo LP della cantante per quello che è: il suo lavoro più ruvido di sempre, che sancisce una specie di presa di distanza dal suo passato da Top 40. Dopo anni di dischi disseminati di hit – dal suo debutto del 2005 fino a Unapologetic del 2012 – ci ritroviamo di fronte un’artista che ha optato per un’evidente deriva anti-pop. Se i suoi precedenti lavori erano tutti costruiti intorno a dei pezzi con la chiara ambizione di funzionare da singoli, le tracce di Anti si miscelano insieme in un flusso continuo, uno strabiliante sogno in salsa downtempo (prendete ad esempio la scarica ritmica da afterhour che parte da Desperado, passa per Wood e arriva fino a Needed Me).In James Joint Rihanna ci fa sapere – nel suo tono dolcissimo – che le piacerebbe “fumare erba /ogni volta che bisogna respirare” (“rather be smoking weed / Whenever we breath”). Una volta esistevano due versioni differenti di Rihanna: c’era la regina glam delle hit radiofoniche e poi la tipa ribelle che si faceva di canne su Snapchat e Instagram. Adesso abbiamo a che fare con la strafottente ragazza caraibica insita nel nostro immaginario collettivo. La sua voce in Anti arriva completamente senza filtri, emozionale e diretta, proprio come i suoi testi, in opposizione ai vocalizzi puri e immacolati che hanno reso celebri i suoi successi, come Diamonds del 2012, oppure We Found Love del 2011. La strada verso questo tipo di approccio sostanzialmente nuovo era però già visibile l’anno scorso nel singolo FourFiveSeconds, dove Rihanna usava la voce in uno stile meno raffinato, più autenticamente imperfetto, in grado di esprimere tutte quelle sfumature soul, che nella sua carriera – almeno fino a oggi – aveva esplorato soltanto in minima parte. Adesso, invece, sembra decisa a seguire quella strada fino in fondo, e il risultato di questa scommessa si palesa in canzoni inaspettate e straordinarie, come ad esempio la blueseggiante Higher. Quando canta “questo whisky mi fa sentire carina” (“This whiskey got me fellin’ pretty”) su un sottofondo di archi, campionati dal produttore No I.D., potremmo tranquillamente immaginarcela immersa in un fumoso localino jazz negli anni ’40.Nell’ultima parte dell’album, Rihanna tira fuori uno dopo l’altro due pezzi azzardatissimi: uno è Love on the Brain, dove reinterpreta in una chiave più contemporanea quello che potrebbe sembrare un classico doo-wop, e l’altro è Same Ol’ Mistakes, dove si lascia andare a una nuova suggestione ipnotica, regalandoci una cover dei Tame Impala, che grazie alla sua vocalità così dolce e suadente rende l’universo psych-pop della band australiana più invitante e soave. Eppure, la vera natura di Rihanna non è scomparsa e lei resta pur sempre un’artista da grandi hit. Work non è di sicuro la sua collaborazione più riuscita con Drake – privilegio che probabilmente spetta alla suntuosa ballata house del 2011 Take Care – ma si può considerare comunque un pezzo impeccabile, una melodia accattivante che si libra fluida su un beat sciropposo da dance-hall. E la sensuale Desperado potrà benissimo diventare una hit da discoteca la prossima estate. Il sound rilassato non è soltanto un nuovo tipo di attitudine per un’artista che si è cimentata praticamente in qualsiasi cosa, passando senza problemi da un pop adolescenziale a un trap aggressivo.La novità è che dopo anni da cantante definita in larga parte dall’aspetto produttivo che circondava il suo lavoro, sembra che finalmente Rihanna sia arrivata al punto di crearsi da sola il proprio sound, ridefinendo il pop in una chiave squisitamente personale. Come dice lei stessa, nella maniera più schietta possibile, in Consideration, un pezzo dal sapore glitch: “Devo fare le cose a modo mio, tesoro” (“I got to do things my own way, darling”).

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Per buona parte del 2015, i continui posticipi e la mancanza di un’informazione attendibile hanno trasformato Anti di Rihanna in una creatura mitologica. Ora che il disco è diventato reale, possiamo prendere l’ottavo LP della cantante per quello che è: il suo lavoro più ruvido di sempre, che sancisce una specie di presa di distanza dal suo passato da Top 40. Dopo anni di dischi disseminati di hit – dal suo debutto del 2005 fino a Unapologetic del 2012 – ci ritroviamo di fronte un’artista che ha optato per un’evidente deriva anti-pop. Se i suoi precedenti lavori erano tutti costruiti intorno a dei pezzi con la chiara ambizione di funzionare da singoli, le tracce di Anti si miscelano insieme in un flusso continuo, uno strabiliante sogno in salsa downtempo (prendete ad esempio la scarica ritmica da afterhour che parte da Desperado, passa per Wood e arriva fino a Needed Me).

In James Joint Rihanna ci fa sapere – nel suo tono dolcissimo – che le piacerebbe “fumare erba /ogni volta che bisogna respirare” (“rather be smoking weed / Whenever we breath”). Una volta esistevano due versioni differenti di Rihanna: c’era la regina glam delle hit radiofoniche e poi la tipa ribelle che si faceva di canne su Snapchat e Instagram. Adesso abbiamo a che fare con la strafottente ragazza caraibica insita nel nostro immaginario collettivo. La sua voce in Anti arriva completamente senza filtri, emozionale e diretta, proprio come i suoi testi, in opposizione ai vocalizzi puri e immacolati che hanno reso celebri i suoi successi, come Diamonds del 2012, oppure We Found Love del 2011. La strada verso questo tipo di approccio sostanzialmente nuovo era però già visibile l’anno scorso nel singolo FourFiveSeconds, dove Rihanna usava la voce in uno stile meno raffinato, più autenticamente imperfetto, in grado di esprimere tutte quelle sfumature soul, che nella sua carriera – almeno fino a oggi – aveva esplorato soltanto in minima parte. Adesso, invece, sembra decisa a seguire quella strada fino in fondo, e il risultato di questa scommessa si palesa in canzoni inaspettate e straordinarie, come ad esempio la blueseggiante Higher. Quando canta “questo whisky mi fa sentire carina” (“This whiskey got me fellin’ pretty”) su un sottofondo di archi, campionati dal produttore No I.D., potremmo tranquillamente immaginarcela immersa in un fumoso localino jazz negli anni ’40.

Nell’ultima parte dell’album, Rihanna tira fuori uno dopo l’altro due pezzi azzardatissimi: uno è Love on the Brain, dove reinterpreta in una chiave più contemporanea quello che potrebbe sembrare un classico doo-wop, e l’altro è Same Ol’ Mistakes, dove si lascia andare a una nuova suggestione ipnotica, regalandoci una cover dei Tame Impala, che grazie alla sua vocalità così dolce e suadente rende l’universo psych-pop della band australiana più invitante e soave. Eppure, la vera natura di Rihanna non è scomparsa e lei resta pur sempre un’artista da grandi hit. Work non è di sicuro la sua collaborazione più riuscita con Drake – privilegio che probabilmente spetta alla suntuosa ballata house del 2011 Take Care – ma si può considerare comunque un pezzo impeccabile, una melodia accattivante che si libra fluida su un beat sciropposo da dance-hall. E la sensuale Desperado potrà benissimo diventare una hit da discoteca la prossima estate. Il sound rilassato non è soltanto un nuovo tipo di attitudine per un’artista che si è cimentata praticamente in qualsiasi cosa, passando senza problemi da un pop adolescenziale a un trap aggressivo.

La novità è che dopo anni da cantante definita in larga parte dall’aspetto produttivo che circondava il suo lavoro, sembra che finalmente Rihanna sia arrivata al punto di crearsi da sola il proprio sound, ridefinendo il pop in una chiave squisitamente personale. Come dice lei stessa, nella maniera più schietta possibile, in Consideration, un pezzo dal sapore glitch: “Devo fare le cose a modo mio, tesoro” (“I got to do things my own way, darling”).

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