Vasco Rossi, leggi la recensione di ‘Ma cosa vuoi che sia una canzone’ | Rolling Stone Italia
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Quando Vasco era un cantautore

È uscita la versione rimasterizzata dell'album da cui tutto è iniziato, un viaggio nel tempo per riscoprire l'origine della leggenda del Blasco

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Foto di De Bellis / IPA

La carriera universitaria claudicante, gli inizi come dj di provincia, le prime radio libere e lo sguardo da sbandato qualunque: sarà forse per il ragazzo che era agli esordi, a metà dei Settanta, che nonostante tutto Vasco Rossi non è mai stato percepito veramente come un “divo” – perlomeno non agli occhi di chi non ne è un fan integralista -, ma piuttosto “uno che ce l’ha fatta”, working class hero all’italiana, per quanto il solo qui in grado di riempire gli stadi da trent’anni, al di là della qualità ondivaga delle sue produzioni.

Per intercettare lo spirito degli inizi, comunque, il 7 dicembre esce un remasted del suo primo LP, …Ma cosa vuoi che sia una canzone…, perfetto per soffermarsi sulle basi artistiche di Vasco, sui suoi riferimenti primari, mai sopiti nonostante successivi, impronosticabili sviluppi. Riscoprire quel disco (dimenticato e un po’ underrated, all’epoca pubblicato solo in Emilia e passato praticamente inosservato) a distanza di quarant’anni, allora, significa riscoprire le radici di una parte di musica italiana, il nocciolo dell’anima “qualunque” del Blasco, oltre ad affacciarsi a una parte della sua produzione quanto mai atipica, strana, distante e diversa da quella più nota, ma forse per questo fra le più interessanti della sua discografia.

Bene, diciamolo subito: per capire il Vasco del 1978 – un dj che aveva appena imbracciato la chitarra, conosciuto giusto fra Bologna e Modena – bisogna capire l’Italia di quegli anni, perché il Nostro era figlio di quella cultura, coi riferimenti coagulati nel Settantasette. Chi c’era, quindi, nelle hit parade di quegli anni? I cantautori, su tutti: Faber e Guccini, ma soprattutto De Gregori, Dalla e Rino Gaetano. Mancava poco a Banana Republic (a cui il Blasco, qualche anno dopo, dedicherà un esplicito tributo, “Asilo Republic”, tanto per dire la devozione), quel movimento stava raggiungendo l’apice, e il Nostro non poteva che attingerne a piene mani. Quindi sì, per quanto oggi possa sembrare assurdo, il Vasco Rossi di …Ma cosa vuoi che sia una canzone… era un cantautore a tutti gli effetti.

Lo stile era ancora acerbo e lontano dal rock – ad esempio – di Bollcine, in mostra su pilastri non ancora strettamente personali, ma traspariva comunque folate di un’identità (e di un immaginario) che in seguito avrebbe significato molto, per tanti(ssimi). Basterebbe fermarsi all’opener, La nostra relazione, punto zero di una carriera intera, per capire. Musicalmente siamo in un’intersezione fra Rino Gaetano e De Gregori, ma il testo parte già per la tangente: la provincia, il disimpegno politico, la noia e l’amarezza, il quotidiano, la perdita di ideali. È la “relazione” di Vasco, sì, ma è anche la storia di migliaia di giovani, di un amore che non ha più senso, non è più un valore, che parte già come abitudine, come ideale essiccato, un ramo secco al vento (“Ci limitiamo a vivere dentro allo stesso letto / un po’ per abitudine e un po’ anche per dispetto“). E poi il cantato, certo: dissacrante, maleducato, goffo e delicato. Suo, insomma, e ancora parecchio naif. La produzione – anche – è grezza, al limite del lo-fi, e si fatica ritrovare un altro disco del Blasco con così tante chitarre acustiche e pianoforti.

Ma i segnali dal futuro, dicevamo, ci sono: …e poi mi parli di una vita insieme è uno spoken dinoccolato à la Piero Ciampi, che racchiude in sé un’essenzialità di scrittura, una semplicità lessicale e argomentativa (il tema è la difficile emancipazione femminile, ma per Vasco sembra più una constatazione disincantata, uno scorno generazionale, che una battaglia da combattere) che farà scuola; Silvia e Tu che dormivi piano, invece, sono quadretti dolci e taglienti di quello stesso autore che, già sensibile storyteller, l’anno dopo, aggiustando il tiro da una formula ancora tanto cantautorale verso un indirizzo più spiccatamente melodico, concepirà un pezzo come Albachiara.

E se poi i due assoli (e i sette minuti totali) di Jenny è pazza rappresentano un gioiello incontaminato di stralunata ingenuità e goffa psichedelia mai più ritrovato, in …Ma cosa vuoi che sia una canzone… c’è spazio anche per una bella porzione di ironia, politica e feroce (Ambarabaciccicoccò) o intima e amara (Ed il tempo crea eroi) che sia. Così, acustica in mano, ritmo incalzante e piglio à la Rino Gaetano di provincia, il Nostro piazza con disinvoltura due manualetti da puro folk-rock da balera, pezzi d’artigianato fra i più sporchi (e riusciti) di quegli anni, prima che Ciao – strumentale ingenua e naif nel suo essere così “non richiesta” – metta al disco la firma conclusiva, impacciata e incosciente, di un Vasco che aveva ancora tutto da scoprire, quarant’anni fa.

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