Prince: istantanea del genio alle sue origini | Rolling Stone Italia
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Prince: istantanea del genio alle sue origini

Nel 1983, Prince era un genio in erba che aveva iniziato una corsa leggendaria che stava per ridefinire il pop. Il disco "Piano & A Microphone 1983" arriva a dimostrarlo inequivocabilmente

Nel 1983, Prince era un genio in erba, che aveva iniziato una corsa leggendaria che stava per ridefinire il pop. L’anno prima era esploso nella Top 10 con il suo doppio Lp di synth-funk 1999 e stava già lavorando a Purple Rain, l’album/film che avrebbe restituito una versione della sua vita à-la Beatles.

Un giorno, in mezzo a tutto questo, si siede nel suo studio casalingo di Chanhassen, Minnesota e butta giù un demo, solo piano e voce. Gran parte di quello che incide sono versioni non complete, un paio di cover e alcune improvvisazioni. Sembrava che questo non dovesse mai vedere la luce del giorno: troppo improvvisato e intimo anche per un artista così importante. Oggi quelle sessioni sono state raccolte in Piano & A Microphone 1983, uno sguardo affascinante a un lato che non sapevamo neanche esistesse.

“Can you turn the lights down?”, chiede Prince con sincerità mentre suona una sequenza di accordi jazzy all’inizio delle registrazioni. Lasciato solo, si sente libero e ispirato, passa tra accenni vari – 90 secondi di Purple Rain, un rework di International Lover – sciogliendosi le dita come un pianista di Sinatra.

Assieme a questi passaggi, si può vedere come abbia trovato il suo posto nella storia della musica americana. In un momento particolarmente audace, esegue un’interpretazione soulful dello spiritual “Mary Don’t You Weep”, una canzone incisa da chiunque, Aretha Franklin a Bobby Darin, aggiungendoci poi una parte di Strange Relationship, un esercizio funk che uscirà in Sign ‘O’ the Times del 1987.

Quello che emerge da questa release postuma aggiunge un livello tutto nuovo alla comprensione di un grande artista. Ascoltarlo oggi è come un atto di voyeurismo, è come spiare un genio al lavoro, vedere come si sviluppano le sue idee in tempo reale, esplorare un lato della sua arte che non era ancora pronto a mostrare al mondo.

A volte è divertente e giocoso, entrando e uscendo da una sorta di James Brown (esclamando “Good gawd!” qui è là) e sbattendo i piedi mentre suona. Apre con 17 Days, il lato B del singolo When Doves Cry, facendo beatbox al posto della batteria e mugugnando la linea di synth. Sull’inedita Cold Coffe e Cocaine, un blues saltellante, un po’ Ray Charles, sbuffa “This is the last time, baby, I eat over at your place/All I get is a cup of cold coffee and cocaine and your ugly face — look out”. In altri momenti più raccolti, è vulnerabile, come sulla cover di A Case of You di Joni Mitchell.
Per quanto sia intimo, Piano & A Microphone è anche imperfetto: si può sentire Prince sbagliare ritmo e sistemare l’intonazione della voce. Ma sono anche i momenti che lo rendono più toccante. Abbiamo davanti un vero momento spontaneo, qualcosa che possiamo condividere con un’icona scomparsa, i suoi 88 tasti e qualcuno che è stato così gentile da spegnere la luce.

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