Nove giorni al Cairo – Tortura e omicidio di Giulio Regeni è uno di quei film che guardi con rabbia, fame, dolore. Alla fine dei 52 minuti di questo pezzo dell’inchiesta multimediale che Repubblica ha messo su – un documentario, appunto, un inserto cartaceo (Super 8) e una webserie in 5 puntate (con la collaborazione di 42° Parallelo) – scopri di aver stretto i pugni così tanto che le tue mani hanno cambiato colore, di avere gli occhi lucidi, di sentire dentro l’esigenza fisica della verità. In tal senso questo film, che sarà proiettato domani al Bif&st 2017 e che ha avuto la sua anteprima l’8 aprile scorso al Festival del Giornalismo di Perugia, agisce sulla partecipazione dello spettatore, sulla sua fame di verità, sull’esigenza di capire, sapere la verità.
Quello che stupisce, però, del lavoro di Carlo Bonini e Giuliano Fascini è il profondo e alto valore cinematografico del lavoro, capace di costruire una narrazione solida, non scontata, fuori dai cliché televisivi e dei documentari d’inchiesta. Centrali sono, inevitabilmente, le interviste e le testimonianze, come in molte opere di questo tipo, ma c’è un lavoro sull’immagine e sull’immaginario più profondo, elaborato, potente. Merito delle riprese dei filmakers (e anche montatori) Alain Zika e Alessandro D’Elia, capaci non solo di mostrarci il Cairo, ma di catturarlo, di permetterci di sentire addosso le sue strade, le luci, i colori, persino le emozioni che erano davanti a Giulio Regeni in quei mesi in cui azzannava la vita e gli studi. Il futuro.
Nove giorni al Cairo, per scoprire che quel ragazzo non solo ha visto interrompere le sue speranze, le sue ambizioni, la sua voglia di rimettere a posto le cose, ma ha subito anche il peggiore degli incubi, una tortura di giorni, scientifica e feroce, a opera del paese che doveva ospitarlo e ringraziarlo per un lavoro che dimostrava l’amore di quel ricercatore per una realtà complessa e affascinante, per la sua cultura, per quella voglia di cambiamento che lui pensava di aver intercettato e che invece è diventata l’arma che lo ha ucciso, di fatto. Nelle mani di un uomo senza qualità a cui lui dà fiducia, parlandogli sinceramente. Mani sporche di sangue, nonostante sia solo una pedina di alti dirigenti egiziani. Forse troppo alti. Forse il più alto.
Nel documentario noi ripercorriamo i giorni della scoperta della scomparsa, dell’arrivo dei genitori al Cairo, 14 mesi fa, del ritrovamento del cadavere, dei primi depistaggi. Un racconto eccezionalmente scritto da Diana Ligorio, per limpidezza e fluidità della narrazione, e che vive di alcune ottime intuizioni. La cura dell’immagine che rende ogni testimonianza unica, la fotografia che con discrezione illumina i volti ma ancora di più i gesti, come quella mano di Paola Regeni che si stringe e si scaglia contro, il pugno di una madre che maledice l’aver obbedito ai suggerimenti di un Paese, l’Italia, che ora difende suo figlio, ma che allora non aveva capito, come nessuno, la portata della tragedia in corso. E poi avere la forza di consegnare a ognuno dei protagonisti, dall’ambasciatore al medico legale, la libertà di raccontare il proprio pezzo di verità con la terminologia del proprio lavoro, riuscendo a restituire verità a ogni parola senza che fosse incomprensibile. Nella crudezza di un medico che parla di ferite inimmaginabili, con una terminologia solo apparentemente fredda e invece piena di emotività (il volto di quell’uomo dice l’inferno che ha visto), nell’ambasciatore che con prosa controllata ci comunica la lacerazione di chi è costretto a portare una pena infinita in una famiglia speciale, nell’inquirente che non si rassegna c’è tutto. E non è una scelta artistica banale, ma una precisa volontà etica ed estetica degli autori, che rende giustizia in primis a Giulio Regeni. A quel ragazzo italiano che vediamo in un filmato rubato da servizi deviati e che persino in quel documento, girato e manipolato per infangarne la memoria, risulta qual era: limpido, onesto, rigoroso. Parla in arabo, gesticola, vuole essere chiaro. Impossibile crederlo una spia. Chiunque avrebbe visto, lì, solo un giovane uomo altruista, curioso e forse, purtroppo, ingenuo. Non i professionisti dell’orrore. Le parole e le immagini in Nove giorni al Cairo hanno pari dignità, bilanciate da un montaggio abile e agile e che non di rado pone le prime fuori sincrono, dando loro ancora più intensità. C’è anche l’intelligenza della coppia Bonini-Foschini nel semplificare il racconto, figlio del loro poderoso lavoro, senza ridurre l’enormità e la complessità di quanto successo, così sconvolgente dal sembrare una spy-story poco credibile, se la vedessimo interpretata da attori.
Questo film ci inchioda alle nostre responsabilità, al nostro ruolo di testimoni civili. Non possiamo non sapere, dopo averlo visto. Non possiamo non chiedere, urlare, pretendere la verità, a ogni costo, per Giulio Regeni. Non possiamo non pretendere dal nostro governo, dalle nostre aziende in Egitto, un impegno costante e implacabile per capire cosa successe in quei nove giorni e non solo.
Perché sono tanti i Giulio Regeni. Uno è il consulente della famiglia, in carcere ora, picchiato e maltrattato da mesi. Centinaia, migliaia di desaparecidos nel regime di Al Sisi pretendono non vendetta, ma giustizia. Giulio, purtroppo, ha “solo” sofferto di più, costringendo i suoi genitori, eroi veri nel loro sobrio coraggio e nella capacità che hanno di lottare senza indietreggiare, a riconoscerlo dalla punta del naso, perché il resto del corpo era martoriato oltre l’immaginabile. Ha subito due torture: in vita e in morte, cannibalizzato da alcuni media all’inizio e dalle falsità provenienti dall’Egitto, da un sistema che le ha tentate tutte per massacrarne la memoria, mentendo su qualsiasi cosa. E forse pure da Cambridge, che ne ha usato il lavoro senza dargli altrettanto, dopo. Fortunatamente, però, c’è ancora un giornalismo e un cinema che forse non possono cambiare il mondo, ma di sicuro possono tenerlo sveglio. E quindi grazie Giulio. Grazie Paola e Claudio. E sì, grazie anche a Carlo e Giuliano (e Mario Calabresi, che su Giulio ha fatto scrivere quasi 200 articoli, sul suo giornale) per questi 52 minuti.