Nine Inch Nails, la recensione di 'Bad Witch' | Rolling Stone Italia
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Nine Inch Nails, ‘Bad Witch’ e quel sassofono per Bowie

La trilogia iniziata con 'Not the Actual Events' si chiude con un disco solenne e viscerale. E, tra sassofoni e ritmi industrial, Trent Reznor e Atticus Ross omaggiano il Duca

Il miglior disco dei Nine Inch Nails da chissà quanto tempo non è neanche un disco. Bad Witch nasce come terzo e ultimo capitolo della trilogia di EP iniziata con Not the Actual Events e Add Violence, ma in qualche modo se ne allontana senza dare troppe spiegazioni e diventa un album vero e proprio, il più breve della discografia della band.

Anche perché diciamoci la verità, degli EP non frega niente a nessuno: «È un formato che si perde facilmente, e non vogliamo fare niente che sia facile da ignorare», ha detto Trent Reznor, costretto durante la composizione a rinviare l’uscita e a cercare una strada nuova.
«Ci è voluto un po’ di tempo perché l’album si rivelasse ai nostri occhi. Sembrava tutto prevedibile, come se forzassimo qualcosa, sia nella musica che nei testi».

La soluzione, in questo caso, ha la forma di un sassofono, che appare a sorpresa dopo l’assalto industrial delle prime due tracce. Forse è un modo per arricchire gli arrangiamenti, magari con alcune trovate di solito utilizzate nelle colonne sonore (Play the Goddamned Part, con le sue percussioni ossessive, sembra un brano scartato da quella di Strade Perdute di David Lynch), forse è un omaggio a David Bowie (la dance arrugginita e digitale di God Break Down the Door), soprattutto al suo ultimo album.

Non è un caso che Blackstar venga in mente di continuo ascoltando Bad Witch: sono due album ambientati tra le rovine, inquietanti, solenni e teatrali. Lo spettacolo di Trent Reznor, però, è viscerale e impulsivo, e non ci sono risposte né speranze: se nei due EP precedenti i temi erano la paranoia digitale e la crisi d’identità, Bad Witch è un disco rassegnato, che guarda alle vicende degli uomini come a una ripetizione inevitabile di errori e arroganza (“Obsolete, insignificant, celebration of ignorance”, in Ahead of Ourselves) da cui non c’è nessuna via di fuga.

Se c’è un dio, allora è annoiato e indifferente; se trovassimo una soluzione, non sapremmo vederla. “Time is running out / I don’t know what i’m waiting for”, canta Reznor nel finale Over and Out, prima di sprofondare in un pozzo di rumore bianco. “I think this keeps happening, over and over again”. Peccato duri così poco.

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