Bright Eyes, la recensione di ‘Down in the Weeds, Where the World Once Was’ | Rolling Stone Italia
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Nessuno canta la battaglia fra ottimismo e disperazione meglio dei Bright Eyes

Il gruppo di Conor Oberst è tornato dopo nove anni con ‘Down in the Weeds, Where the World Once Was’ per cantare l'apocalisse. Loro sono l’orchestrina dell'enorme Titanic del mondo, noi gli sventurati che affogano

I Bright Eyes, con Conor Oberst al centro

Foto: Shawn Brackbill

Il giorno in cui è uscito il nuovo album dei Bright Eyes una diciassettenne americana l’ha ascoltato twittando le sue reazioni. Di ogni canzone raccontava se aveva pianto, se erano lacrime di gioia o di tristezza, e quanto era devastata. Ogni tanto postava un selfie: le cuffie a coprire le orecchie, gli occhi lucidi, le guance rigate dalle lacrime. Non c’è bisogno d’essere giovane e sensibile quanto lei per essere colpiti da quest’album: Down in the Weeds, Where the World Once Was è un disco fatto apposta per farti venire il magone se adori in modo in cui Conor Oberst scrive, canta e processa il mondo. Ed è anche la migliore raccolta di canzoni del gruppo dai tempi del formidabile I’m Wide Awake It’s Morning.

Non che Down in the Weeds sia un disco rivoluzionario. Non propone alcunché di nuovo, il gruppo ha bilanciato con cura quasi cencellesca gli elementi che in passato l’hanno reso moderatamente popolare. Conor Oberst ci mette il suo songwriting spudoratamente emotivo e immediatamente riconoscibile. Anche qui niente di nuovo: se si è in grado di canticchiare le melodie al primo ascolto è perché somigliano a quelle che abbiamo già sentito e amato. Con una differenza: oggi è più che mai vibrante il modo di cantare di Oberst. Somiglia al grido d’aiuto di un uomo che sta affogando e che ha accettato il suo destino. E insomma è chiaro perché questa musica un tempo la chiamavano emo e l’ascoltavano quelli strambi e troppo sensibili, e perché oggi s’accompagna sui social a foto di gattini con gli occhi lucidi.

Infuria una battaglia nelle canzoni di Down in the Weeds. È l’eterna guerra fra ottimismo e disperazione. È questa roba qui che fa piangere la gente e fa battere il piede un po’ più forte. È come se lo stile del gruppo fosse stato portato all’estreme conseguenze. È tutto grande, carico, sfacciato. Come canta Oberst alla fine di un pezzo titolato Stairwell Song, “ti son sempre piaciuti i finali cinematografici”. E subito dopo quelle parole arriva davvero il finale della canzone con tanto di archi da colonna sonora. Ecco, il disco ha questa spudoratezza ed è una cosa che accetti o rifiuti. Se ti sembra troppo o non ti tocca, finisci per considerare Down in the Weeds un buon album di rock americano, forse persino ottimo, magari sopra le righe. Se la accetti e la fai tua, diventa il luogo in cui senti risuonare le piccole vittorie e le grandi sconfitte della tua esistenza.

Dentro ci sono pezzi di vita di Oberst, ad esempio la fine del matrimonio con Corina Figueroa Escamilla o la morte improvvisa del fratello. Ci sono brani da storyteller. C’è il grande scenario in cui tutti viviamo. Ci sono gli arrangiamenti architettati dai due musicisti che affiancano Oberst nel gruppo, il produttore Mike Mogis e l’arrangiatore Nate Walcott, un trionfo di chitarre (il breve e semplice assolo di To Death’s Heart è una masterclass di semplicità ed efficacia), fiati, archi, Hammond, banjo, pedal steel, un’Americana che soprattutto nella prima parte ti rimescola lo stomaco. C’è anche Flea ospite al basso in sette pezzi e poi cornamuse e dulcimer e Mellotron e sintetizzatori.

Date del tempo all’umanità, recita una canzone, e farà esplodere il pianeta oppure riuscirà a metter piede sulla Luna. In un altro passaggio si dice che il mondo ci sta dicendo addio e perciò è il momento giusto per dare una festa. I Bright Eyes sono l’orchestrina del grande Titanic in cui viviamo e noialtri gli sventurati che affogano. Nel disco c’è questo senso d’apocalisse incombente, ma anche di speranza – forse una speranza disperata. Citando i due precedenti album del gruppo, usciti rispettivamente nel 2007 e nel 2011, un’altra ragazza americana ha twittato pochi giorni fa la sua recensione di Down in the Weeds: “Cassadaga e The People’s Key hanno fatto un figlio e questo figlio ha predetto l’apocalisse”. È sottinteso che il figlio è meglio dei genitori e che l’apocalisse ha una colonna sonora magnifica.

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