Neneh Cherry, la recensione di 'Broken Politics' | Rolling Stone Italia
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Neneh Cherry, la drum ‘n’ bass e la fine della politica

Per fare i conti con la "broken politic", il razzismo e l'indifferenza globale, Four Tet e i Massive tornano ai sound system e al suono degli spazi occupati

“La mia politica è vivere come in una lenta danza / Devozione sincronizzata”, canta Neneh Cherry su un pianoforte e un vibrafono. Nient’altro. La nostalgia di un luogo della politica (e della danza) nella città deserta e recintata tra le luci accecanti del “realismo capitalista” e gli angoli bui dove non è rimasto neppure l’eco di una vecchia festa. Con lei altri splendidi cinquantenni che attraversarono gli anni ’90 e anche un po’ di Anni Zero, e che tornano assieme in un nuovo disco. In-attuale. Bellissimo.

3D aka Robert Del Naja, il fotografo Wolfgang Tillmans (che firma la copertina – a 54 anni Neneh Cherry è l’icona new left di sempre), la produzione di Booga Bear e Four Tet (quarantenne lui, ma di lungo corso, ce lo ricordiamo bene).

Neneh Cherry, foto via bandcamp

Tema: la necessità di fare i conti con le cattive vibrazioni della broken politics, semplificata, balbettante, inumana. Il populismo e il razzismo nei quali affondiamo ogni giorno come nelle sabbie mobili, la diffusione delle armi (Shot Gun Shack), l’indifferenza globale. Allora Four Tet e i Massive rimettono in funzione le armi dimenticate dei sound system (a Bristol e Londra, come nei centri sociali di Roma e Milano).

E il trip-hop caraibico ultras di Natural Skin Deep pare uscito da un vecchio disco dei Soul II Soul con un interludio jazz da film di Spike Lee. Citano esplicitamente il tribalismo modernista di papà Don Cherry, presente in spirito e in suoni in più di un pezzo (l’attacco di Slow Release, Deep Vein Thrombosis, che ha una citazione dal meraviglioso Brown Rice), e nella palette sonora di Four Tet, che ama da sempre metallofoni minimalisti. Niente auto-tune. Soltanto la voce umana. Servirà?

Neneh Cherry - Kong

A suo tempo Neneh Cherry ha fatto volontariato in una cucina da campo a Calais, tra i “migranti” ai quali dedica Kong. Che suona come un grande notturna elegia combattente alla Massive Attack coi crack del vinile e il battito del cuore. Lei canta che nella vita “bisogna prendersi un piccolo azzardo” e si può rischiare di “perdere l’amore”, perché poi l’amore e il mondo sono tanto più grandi di così e “ogni popolo cerca amici in Francia e in Italia”.

Cercavano di occuparsi di politica il meno possibile (e inseguire la felicità qui e ora). Adesso che la politica si è presa una rivincita capace di lasciarti steso, andate a spiegare agli ex ragazzi che passavano le notti a ballare la drum’n’bass negli spazi occupati che i viaggi, i sogni, l’esistenza di qualcuno in questo mondo possono essere un crimine.

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