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Neil Young aveva bisogno del frastuono dei Crazy Horse

'Colorado', il nuovo album del cantautore con la sua band storica, è un disco dai due volti: da un lato le ballate più belle scritte da Young negli ultimi anni, dall'altro cavalcate rock piene di improvvisazioni e testi retorici
3.5 / 5

Telluride, il capoluogo della contea di San Miguel, in Colorado, è una piccola città di appena 2300 abitanti. È qui, in questo villaggio a più di 2500 metri d’altitudine, che vive Neil Young, ed è qui che ha inciso il suo 39esimo album in studio, Colorado, insieme ai Crazy Horse, band leggendaria con cui non registrava dai tempi delle jam sovradimensionate e sconnesse di Psychedelic Pill.

Registrate dal vivo in soli 11 giorni, le canzoni di Colorado sono la lunga coda di un concerto che Young e i Crazy Horse hanno suonato lo scorso febbraio alla Centennial Concert Hall di Winnipeg, serata che ha convinto Young a tornare a scrivere per la sua band. Quando ha inviato i brani alla band – a cui si è aggiunto Nils Lofgren, storico chitarrista della E Street Band, al posto del “pensionato” Frank “Poncho” Sampredo –, però, ha chiesto ai musicisti di memorizzare solo gli accordi, così da lasciare tutto il resto all’improvvisazione. «Neil voleva che scoprissimo le canzoni tutti insieme», ha detto Lofgren, «e ci ha chiesto di non usare cuffie. L’obiettivo era guardarci di più, ascoltarci meglio. Non è stato facile».

Young, infatti, non si è accontentato di incidere un live in studio, ha voluto farlo in analogico utilizzando un banco vintage, l’Universal Audio 610, che risale addirittura alle session del 1972 di Harvest, e senza mai spostarsi dallo studio di Telluride, con quell’altitudine che ha costretto i membri della band a indossare maschere d’ossigeno. Non solo, Colorado è stato registrato nel mezzo di una serie di difficoltà tecniche e dopo un periodo molto difficile per il cantautore: a gennaio la sua ex moglie Pegi è morta di cancro, e lo stesso è successo al suo manager Elliot Roberts a giugno. Come è già successo tante volte nella discografia di Young – soprattutto con On the Beach e Tonight’s the Night –, questi momenti di dolore si sono trasformati nel nucleo delle canzoni più riuscite dell’album.

Il risultato non è un tipico disco di Neil Young con i Crazy Horse. Se da un lato non mancano le cavalcate rock e le improvvisazioni, le canzoni migliori di Colorado sono le ballate: Olden Days, racconto di amici che si incontrano dopo anni di assenza, Eternity, dedicata a una fuga d’amore e a un’eternità possibile solo nei ricordi, e I Do, probabilmente la canzone più bella scritta da Neil Young negli ultimi anni.

Dall’altra parte, dicevamo, ci sono le cavalcate rock. L’idea di “costringere” il gruppo ad arrivare impreparato funziona a meraviglia: She Showed Me Love, Help Me Lose My Mind, Milky Way, tutti i brani più rumorosi del disco sono ricchi di momenti caotici, passaggi imperfetti, improvvisazioni più o meno radicali, tutti gli ingredienti che hanno reso inimitabile un suono che sembra non invecchiare mai. Lo stesso non si può dire dei testi: se nelle ballate Young parla di amici scomparsi e di un passato impossibile da dimenticare – “I’m living in the olden days / I found my friends along the way / Some are here with me right now / Some have disappeared somehow” –, nei brani rock torna alla scrittura radicale di The Monsanto Years, questa volta adattata al cambiamento climatico e all’America dei suprematisti bianchi. Il risultato è una serie di tirate retoriche e didascaliche, letterali, ripetitive, più simili a un post di Facebook che all’ambiguità dei suoi classici “politici”.

Colorado è un disco dai due volti, rozzo e imperfetto, che non regge minimamente il confronto con i capolavori scritti tra gli anni ’60 e ‘70. Allo stesso tempo, però, è il disco più diretto e urgente dell’ultimo decennio della carriera di Neil Young che, come un vecchio artigiano nascosto nel suo rifugio tra le montagne, non sa fare altro che scolpire una canzone dopo l’altra.

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