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Michael Kiwanuka è il più grande soulman vivente?

Se non l’avete mai ascoltato, fatelo adesso. L’inglese porta nell'era digitale il meglio del mondo analogico e connette esperienze individuali e collettive
4.5 / 5

Michael Kiwanuka è tutto quello che un soulman dovrebbe essere e spesso non è. Dialoga col passato, ma suona contemporaneo. Prende il meglio del mondo analogico e lo porta nell’era digitale. Racconta storie personali su uno sfondo collettivo. È una miscela di talento, immaginazione, espressività. I suoi dischi – un culto per pochi, qui in Italia – sono fra le cose migliori che possiate ascoltare. Vale anche per il terzo che s’intitola semplicemente Kiwanuka perché parla di auto-accettazione e dimostra che questo cantante inglese d’origine ugandese è il soulman di cui avevamo bisogno.

Kiwanuka sa come si apre un disco. Tre anni fa, Love & Hate iniziava con i 10 minuti di Cold Little Heart, un’esplorazione di uno stato d’animo che cresceva con estrema lentezza ed era guidata da un lunghissimo assolo di chitarra, una bestemmia in un’epoca in cui bisogna colpire l’ascoltatore nei primi 30 secondi per convincerlo a non passare allo stream di un’altra traccia. Kiwanuka si apre con un’ambientazione urbana, fra voci di strada e un tappeto di percussioni, e una fantasia gioiosa e aerea intonata dai fiati e da un coro che non avrebbe stonato nella colonna sonora di una commedia italiana anni ’60.

Si capisce già dall’introduzione che Kiwanuka è un disco più luminoso di Love & Hate. «Quello era introspettivo, una specie di terapia. Questo ha a che fare col fatto che mi sento finalmente a mio agio con me stesso», ha detto il cantante. Prodotto da Danger Mouse e Inflo, l’album è un miscuglio di soul, funk, rock psichedelico, jazz, gospel. Fa venire in mente Curtis Mayfield, Bobby Womack, gli Isley Brothers, Bill Whiters, Otis Redding, Richie Havens. E pure i concept di Marvin Gaye: t’immergevi in un mondo e quaranta minuti dopo ne uscivi cambiato, almeno un po’.

Kiwanuka è un viaggio. È uno di quei dischi in cui anche gli intermezzi strumentali suonano bene e hanno qualcosa di cinematografico. Ha un suono assieme grezzo e seducente. È suonato con una gran quantità di strumenti acustici ed elettrici, vecchi sintetizzatori, archi. Kiwanuka scrive bene, una cosa non scontata in un’epoca in cui le canzoni somigliano sempre più a meme. I riferimenti storici – Hero ad esempio è dedicata a Fred Hampton, giovane attivista delle Pantere Nere ucciso dalla polizia di Chicago nel 1969 – rispondono al disegno di mettere in connessione passato e presente, esperienze individuali e collettive, ansie private e razzismo.

È un fenomeno quest’uomo di 32 anni cresciuto ascoltando vinili anni ’70 nel quartiere londinese molto bianco di Muswell Hill, lo stesso che da cui è emersa nel secondo dopoguerra la più inglese delle band inglesi, i Kinks. Loro cantavano le divisioni di classe della società dell’epoca, dileggiavano gli aristocratici, disprezzavano le aspirazioni piccolo-borghesi. Lui racconta la sua esperienza di alieno nel Paese in cui è nato. Ha una voce limpida ed espressiva che suona magnificamente anche quando canta banalità. E ha capito che se vuole anche solo avvicinarsi alla grandezza dei vinili che ascoltava da ragazzo, a Muswell Hill, un laptop e un microfono non bastano.

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