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‘Men’: il rapporto tra uomini e donne è un horror (riuscito a metà)

Alex Garland, visionario autore di ‘Ex Machina’ e ‘Annientamento’, affronta il dibattito più caldo del momento con un film coraggioso e disturbante. Che però non funziona del tutto, nonostante le grandi prove di Jessie Buckley e Rory Kinnear
2.5 / 5

Tutto ha inizio quando la donna mangia la mela, cedendo alla tentazione come una moderna Eva. Che l’atto in sé provochi la caduta degli uomini, o che semplicemente prometta la loro rovina perché li mette l’uno contro l’altro, a cercare di capire di chi sia la colpa, resta materia di dibattito. Una cosa utile da sapere riguardo al nuovo film di Alex Garland, Men, è che sul tema si è decisamente schierato. Men è una storia esagerata, carnale, svergognata dei maschi, visti come figure che hanno deciso che la causa dei loro fallimenti sono sempre… le donne. Un destino che, del resto, va avanti dai tempi della creazione. Men trova tutto questo un po’ patetico. Ogni dettaglio esplicitamente gore, ogni lacerazione emotiva, ogni trovata visivamente disturbante sembra simboleggiare questo disgusto che, alla fine, riduce tutti gli uomini in scena a personaggi piagnucolanti, bisognosi di protezione, se non decisamente psicotici.

Tutto questo, quando funziona, è la parte buona del film: al di là delle idee messe in campo, c’è la giusta atmosfera di cupissima tensione. Uno dei più grandi sforzi che deve fare un film horror è ricordarti ogni volta che alcune delle paure più comuni sono incredibilmente soggettive: anche se possiamo riconoscerle tutti come tali, non tutti le viviamo allo stesso modo. Ma, nel riconoscere le paure degli altri, finiamo per ammettere che sono reali, anzi legittime. E questo succede con Men, quando vediamo la nostra eroina, Harper (Jessie Buckley), camminare da sola di sera in un tetro villaggio della campagna inglese, tra cimiteri e alberi che oscurano la luce della luna. O quando viene inseguita da un uomo nel bosco, un luogo che non conosce e nel quale si sente perduta. O quanto tutte le interazioni che ha col sesso maschile finiscono per rappresentare varie forme di violenza: da quella più blanda (una mano indesiderata sul ginocchio; lo scetticismo di chi non crede che sia stata vittima di stalking) a quella più manifesta (un pugno in faccia).

Se ridotto alla sua essenza, Men è un film su una donna che vuole solo stare da sola. Harper ha deciso di lasciare la città per due settimane, e di trasferirsi in campagna. Ha affittato una grande villa del ’500 in mezzo al nulla, spinta dalla voglia di lasciarsi alle spalle una tragedia personale. Suo marito James (Paapa Essiedu) è morto, e noi lo scopriamo nella prima scena del film. Ma ci vorranno vari flashback per comprendere la complessità di quella morte, che potrebbe essere stata un suicidio; e anche la complessità del matrimonio stesso, che navigava da tempo in cattive acque. Capisci subito che Harper sta, in un certo senso, cercando di superare il suo stesso senso di colpa. Ma non è così semplice: i suoi demoni le stanno dando la caccia.

Men è il tipo di film che mette in scena quei demoni in senso letterale, perlopiù in forma di uomini (tutti interpretati dal sorprendentemente versatile Rory Kinnear) che si mettono a giocare con lei in modo crudele. È meglio non svelare le meccaniche di questo gioco. Basti dire che, a un certo punto, vi sembrerà di vedere la faccia di Kinnear ovunque: perché è proprio quello che avviene. La vedrete sotto forma di bambino, di sacerdote e persino di poliziotto. A volte vi sembrerà un volto minaccioso, altre solo timido, ma sentirete che sotto c’è sempre qualcos’altro… Tutto questo è già spaventoso di suo, ma lo diventa ancora di più nel crescendo di sangue e violenza che caratterizza questa storia: la stessa violenza con cui si era aperto il film è quella su cui si chiude. In Men non c’è niente di più pauroso, e anche di più efficace, di un uomo nudo che all’improvviso compare nel mezzo della campagna inglese, e che si mette a fissare la protagonista in silenzio – ma anche, nello stesso momento, lo spettatore al di là dello schermo.

È chiaro che Men ha delle tesi da sostenere, e lo fa in modo piuttosto evidente, con una consapevolezza ammirevole anche quando va fuori strada. Ma dall’altro lato, proprio quando esce dai binari, rischi di non riuscire più a decifrare il punto centrale. Se lo si considera un film sulle paure soggettive di una donna, sul suo essere minacciata o perseguitata dalla violenza maschile in un modo che è sia totalmente realistico sia quasi soprannaturale, allora l’esito funziona: senti la tensione letteralmente sulla tua pelle. Ma se invece questo film vuole dirci perché gli uomini sono quello che sono, be’… le cose si fanno più pasticciate.

Rory Kinnear in una scena del film. Foto: A24

Troppo tempo è dedicato alle dinamiche di un matrimonio fallito messo in scena in modo troppo arty (lo definirei “un brutto Bergman”, per capirci). E troppo tempo è impiegato per mettere in scena momenti totalmente gore che si rivelano un po’ ripetitivi, e non sempre utili ai fini narrativi: anche il climax finale, grandguignolesco e quasi estatico, rischia di far scemare tutta la tensione, invece di amplificarla. Le scene in cui la protagonista cammina da sola per la campagna non contano granché, ma perché il film non le rende rilevanti nello sviluppo dell’azione. Si concentra di più su tutto ciò che di violento e incomprensibile possono fare gli uomini. Bisogna però riconoscere quanto questo film sia in grado di puntare il dito andando al cuore del dibattito corrente – e va riconosciuto anche il fatto che sia stato un regista e sceneggiatore uomo, a capire quanto gli uomini possano essere delle presenze orrorifiche nei riguardi delle donne.

Ma, alla fine, sembra che quasi che Harper sia la grande assente, in questo scenario. Se i personaggi maschili del film sono ridotti a ciò che di peggio rappresentano, anche Harper lo è: il suo personaggio si compone perlopiù delle reazioni a ciò che di brutto incarnano gli uomini. Le eccezioni sono costituite dalle interazioni tra le poche donne in campo: cioè tra la protagonista e la sorella (interpretata da Gayle Rankin) con cui parla principalmente in videochiamata; e tra la protagonista e una agente di polizia. Queste scene, più che i flashback e le microaggressioni che contrappuntano l’azione, ci mostrano una persona che è reale, una vita che è reale. L’incapacità di Harper di emergere come figura più ampia e complessa di quello a cui il film la vuole ridurre non è colpa di Buckley. E non è nemmeno colpa di Kinnear, che, nonostante la performance variegatissima che mette in scena, non ruba mai interamente la scena. Non monopolizza mai il film. E, considerata la tesi che Men sostiene, questo dice già moltissimo della sua riuscita (nonostante tutto).

Da Rolling Stone USA

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