‘Matrix Resurrections’: ci sono voluti vent’anni per questa bellissima storia d’amore e nostalgia | Rolling Stone Italia
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‘Matrix Resurrections’: ci sono voluti vent’anni per questa bellissima storia d’amore e nostalgia

Quello firmato da Lana Wachowski (stavolta senza la sorella Lilly) è più di un semplice sequel di una delle saghe più cult di tutti i tempi. È una riflessione sentimentale e insieme intellettuale sulla natura profonda di quella trilogia. Che, parlando del suo tempo, ha anticipato il nostro

Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss in ‘Matrix Resurrections’ di Lana Wachowski

Foto: Warner Bros.

La parola che risuona nella nostra testa mentre guardiamo Matrix Resurrections è “eco”. Non dèjà vu, non l’inquietante sensazione di aver già sognato o vissuto qualcosa e di non poter dire dove o quando è successo. Eco: una cosa di cui conosci le origini, di cui sai indicare il punto di partenza, e che però torna come un boomerang, come un elemento che hai già sperimentato e che al contempo è diverso. Distorto.

Nel caso specifico: il ritorno di personaggi familiari come Morpheus o l’Agente Smith – interpretati rispettivamente dagli indimenticabili Laurence Fishburne e Hugo Weaving – ma senza gli attori originali. (Non è uno spoiler: sapevamo già da almeno un anno che Fishburne non sarebbe tornato nel quarto sequel.) E una trama che ricalca quasi passo per passo la storia che già sappiamo, con tuttavia una consapevolezza che intensifica il senso di questa “revisione”. Questo è un film che si colloca in un tempo presente tutto suo, quasi disturbante, e che guarda al suo stesso passato con un misto di curiosità e sospetto. In un modo che non è affatto sorprendente, come ci viene detto a pochissimi minuti dall’inizio: un gruppo di personaggi che ci sembra di conoscere bene si staglia in lontananza, come se la sequenza iniziale del primo Matrix stesse replicando sé stessa… o quasi. E, per tutta la durata di Resurrections, brevi frammenti dei precedenti film della saga si affacciano nel nuovo episodio: a volte in forma di ricordo, o forse di allucinazione; altre, letteralmente proiettate su uno schermo, come se fossero le scene di un film – cosa che, di fatto, sono.

Matrix Resurrections – Trailer Ufficiale Italiano 2

In modo ancor più sinistro, assistiamo al ritorno del déjà vu stesso, che un tempo era la semplice avvisaglia di una qualche revisione del codice del cosiddetto Matrix, un pezzo di quel mondo concettuale costruito nella saga e annunciato dall’apparizione di un gatto nero. Ora, in Resurrections, Déjà Vu è il nome di un vero gatto nero. Ed è il gatto del terapista da cui è in cura Thomas Anderson (Keanu Reeves), un uomo che sta affrontando un processo di recupero dopo un tentato suicidio. Il suo terapista indossa un paio di occhiali con la montatura blu – un blu preciso, inconfondibile, un’eco dal mondo fatto di simboli e codici di questo franchise. Un’eco: la stessa, ma diversa. E che vale come indizio di qualcosa che non va.

Matrix Resurrections (nelle sale dal 1° gennaio) è un film che sa bene qual è il suo lascito nell’immaginario collettivo – sa che la la lingua e l’iconografia che Matrix ha inventato (“la pillola rossa”, “bullet time”, “l’Oracolo”, “l’Eletto”) si sono radicate nella nostra cultura, nelle nostre teste, anche in quelle di chi magari non ha visto i capitoli precedenti. E sa anche che siamo nel XXI secolo. Il che significa che tutto quello che sembrava innovativo o profetico nel momento in cui è uscito il primo film – una cyber-allegoria che anticipava le nostre identità digitali – ha finito per costituire l’esperienza umana per come oggi tutti la conosciamo.

Perciò quando, all’inizio del film, vedi Thomas Anderson e una donna di nome Tiffany (Carrie-Anne Moss) seduti al tavolo di un bar, o comprendi la portata di quell’incontro oppure no. Ci sono due persone – lui è il designer di un popolare videogioco che si chiama proprio The Matrix, lei una moglie e madre di tre figli che nel tempo libero ama aggiustare vecchie motociclette – che si chiedono se si siano già conosciuti o meno. Perché l’eroina del videogame, di nome Trinity, assomiglia moltissimo a Tiffany. Il motore emotivo di questa scena è l’implicita affinità tra i due, riconoscibile che si sappia la storia alle loro spalle oppure no (o che ricordiate il labirinto filosofico alla base dei due sequel, incompresi seppur non privi di difetti, della trilogia). Allo stesso modo, il fatto che il bar in cui si trovano non si chiami Stimulate ma Simulatte forse vi dice qualcosa. È già tutto lì, in superficie. Ma i sentimenti che genera in noi spettatori sembrano sepolti in qualche lontano abisso.

È bellissimo. Ed è anche il segno di quanto l’universo delle sorelle Wachowski – che si parli della saga di Matrix o dei progetti successivi, più problematici ma sempre affascinanti – abbia funzionato negli anni (anche quando non funzionava granché). Lana Wachowski ha diretto Resurrections da sola, ma la sostanza alla base del film – la stessa che ritroviamo nelle produzioni firmate da entrambe le sorelle – resta unica nel mischiare il sentimentale e il banale con il subliminale e l’ipersimbolico. L’esito più felice di Resurrections sta nella maniera intelligente, e insieme commovente, in cui riesce a ricreare questa alchimia.

Il mondo di ‘Matrix Resurrections’. Foto: Warner Bros.

Resurrections inizia con uno stratagemma che potrebbe sembrare un po’ stiracchiato. Basta dire che un franchise basato su concetti sempre apparentemente binari a proposito di scelta (libero arbitrio contro destino) e identità (che sia materiale o digitale) aveva già al principio, anche involontariamente, spianato la strada agli eventuali sequel futuri che si prestavano a questa meta-riflessione. Riecco Thomas Anderson, l’“architetto” di quel mondo noto come The Matrix. Devo davvero andare avanti? Resurrections è stato scritto da Lana con David Mitchell (il cui Cloud Atlas è stato adattato dalle due sorelle nel 2012) e Aleksandar Hemon: entrambi avevano già collaborato con le Wachowski nell’amatissima serie Netflix Sense8. Perciò la furbizia alla base di questo progetto è ancora più evidente di quanto non lo fosse ai tempi del primo film. Il tono di Resurrections non è dissimile dall’iconico incipit di Scream 4 di Wes Craven, che urlava forte e chiaro allo spettatore: “Sappiamo che voi conoscete già questa storia” – e che poi raddoppiava, triplicava, quadruplicava questo concetto con una notevole dose di ironia sulla propria natura e soprattutto sul fatto che i sequel non servono a niente, se non a far soldi.

In Resurrections, come nel film di Craven, Lana Wachowski ci conquista proprio perché mette subito sul piatto le sue intenzioni. Che però, qui, hanno uno spessore e una complessità anche emotiva maggiori. Lascerò i dettagli più precisi alla vostra visione del film. Ma molto di quello che era stato costruito negli episodi precedenti – l’utopia che ha immaginato, l’amore reso possibile – è ora scomparso. Il nuovo cast (guidato da Yahya Abdul-Mateen II, Jessica Henwick, Jonathan Groff, Neil Patrick Harris, Priyanka Chopra Jonas; oltre a gran parte del team di Sense8: Eréndira Ibarra, Max Riemelt, Brian J. Smith, Toby Onwumere) regala una serie di performance che sembrano avatar di quelle della trilogia originale. Così come Jada Pinkett Smith e Lambert Wilson (che riprendono, rispettivamente, i personaggi di Niobe e del Merovingio) servono solo a simboleggiare quante cose sono cambiate dall’ultima volta in cui siamo stati nel loro mondo. Ci sono anche tantissime Easter eggs: per esempio, Chad Stahelski – il regista di John Wick che fu stuntman di Keanu Reeves proprio in Matrix – fa la sua apparizione nei panni del “bel Chad” (ed è meglio non spoilerare oltre).

In un altro film – e meno complesso di questo – la maggior parte di questi dettagli sarebbe facilmente liquidata come “fan service”. Dubito che Lana Wachowski avesse questo in mente; i fan delle due sorelle, anche quelli che hanno fatto un uso improprio delle loro idee, sono stati fondamentali nel permettere che quell’immaginario restasse così radicato nel mainstream globale. Ma uno dei meriti maggiori di Resurrections è la capacità di interrogarsi a fondo su questo ritorno. Thomas Anderson siede al tavolo di una riunione di lavoro dove il suo stesso lavoro su The Matrix (il videogioco) viene ripreso in mano da un gruppo di designer più giovani, perché la società che lo produce, la Warner Brothers (ehm), ha chiesto loro un sequel. E questi giovani creativi iniziano a riflettere su cioè che significava l’originale. «Crypto-fascismo», dicono. «Politiche trans», aggiungono. Anderson diventa l’artista frustrato costretto ad ascoltare quel che pensano gli altri a proposito della sua opera: l’eredità di The Matrix finisce quasi per perseguitarlo.

Non è che quelle interpretazioni siano sbagliate. Matrix – il film – parlava efficacemente del momento storico in cui è arrivato. Ha legato la portata culturale e globale delle due autrici ai tardi anni ’90, esauriti dalla vana promessa di un capitalismo vecchia maniera e sensibili ai nuovi temi del nerdismo informatico e a una visione da outsider all’interno del postmodernismo mainstream. E veicola un’essenza che ha parlato, e continua a parlare, alla comunità transgender, che ha visto nella saga un’allegoria della transizione applicata all’era digitale, in cui le persone possono scegliere con quale identità rappresentare sé stesse stando al sicuro dietro i loro avatar virtuali. (Switch, va ricordato, era stato concepito come personaggio trans, ma la Warner bocciò l’idea.) Lo stesso vale per il dilemma a proposito della pillola rossa e di quello che rappresenta – la sua natura intrinseca non può più essere fraintesa.

Carrie-Anne Moss torna nei panni di Trinity. Foto: Warner Bros.

Tutto questo è un peso notevole, che si carica sulle spalle un sequel atteso da quasi due decenni. Invece di offrire una prova muscolare sul loro mondo e il loro cinema, le sorelle Wachowski ci hanno dato un film che più astutamente ci ricorda quello che Lilly disse ai GLAAD Awards nel 2016: «Se le idee a proposito di identità e trasformazione sono elementi cruciali del nostro lavoro, il fondamento su cui poggiano è sempre e solo l’amore». Resurrections è una love story: tra Neo e Trinity, naturalmente. Ma è anche una variazione sulla precedente triologia che sarebbe potuta venire solo dopo due progetti come Cloud Atlas e Jupiter – Il destino dell’universo, in cui le Wachowski si sono date ancora più a fondo al loro weirdissimo sentimentalismo e alla loro ambizione concettuale. Ed è un film della saga di Matrix che sarebbe potuto arrivare solo dopo vent’anni di ripensamenti.

Questo film mi ha commosso e sorpreso molto più di quanto non mi sarei aspettato. Il motore emotivo di Matrix Resurrections è solenne e travolgente. All’inizio può sembrare un po’ stucchevole. Poi il personaggio di Jonathan Groff, come quello di Keanu Reeves, diventa quello che “è”, e cade il velo posto sulle visioni (no: le allucinazioni) che il film fin dall’inizio aveva messo in campo. Le scene di combattimento sono ben coreografate e psicologicamente funzionali – fino alla fine. Che è un insieme di emozioni sincere e di azione splendidamente messa in scena, corpi fatti a pezzi con il semplice gesto di una mano e altri trasformati in bombe senzienti. Come i suoi predecessori, Resurrections riesce a far implodere le sue multiple dimensioni di senso regalandoci al tempo stesso una storia lineare. Alla fine, tutto fa i conti con la scelta che ogni personaggio di questo franchise ha fatto sullo stare dal lato del bene, prima di farsi inghiottire dall’“altro” mondo. È una scelta su chi si vuole essere. E se Matrix ti dice che il destino del mondo è direttamente legato a questa scelta, tu continui a crederci. Oggi anche più di allora.

Da Rolling Stone USA