Mary J. Blige. The London Sessions | Rolling Stone Italia
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Mary J. Blige – The London Sessions

I primi 10 anni di carriera di Mary J. Blige, nota anche come “The Queen of hip hop-soul”, sono stati turbolenti. Scoperta da Puff Daddy nel 1991, era una ragazzina inquieta e incapace di gestire il successo, segnata da un passato di povertà e abusi. Dal punto di vista artistico, però, i guai sembravano farle […]

I primi 10 anni di carriera di Mary J. Blige, nota anche come “The Queen of hip hop-soul”, sono stati turbolenti. Scoperta da Puff Daddy nel 1991, era una ragazzina inquieta e incapace di gestire il successo, segnata da un passato di povertà e abusi. Dal punto di vista artistico, però, i guai sembravano farle bene: sull’onda dei suoi tormenti ha regalato al mondo album viscerali come My Life o Mary, in cui anche i brani più allegri erano velati da una struggente malinconia.Nel 2001, la svolta con No More Drama: trovata finalmente la pace interiore, aveva deciso di provare a cantare la sua felicità. Da allora ha perseverato su questa strada, con risultati alterni (diciamo che le riescono meglio le canzoni tristi) e qualche vero e proprio flop. È il caso di Think Like a Man Too, il suo penultimo album, uscito nell’estate 2014 e ignorato da tutti: leggenda vuole che per rimediare Mary abbia voluto assemblare in tutta fretta un nuovo disco con sonorità ispirate a F for You, la hit dance realizzata con i Disclosure. Per registrarlo è volata a Londra e ha lavorato con artisti che in molti casi hanno la metà dei suoi anni (gli stessi Disclosure, Sam Smith, Emeli Sandé e Naughty Boy).Il risultato è questo The London Sessions, progetto molto eterogeneo: si va da ballad strappacuore che non sfigurano a confronto dei suoi grandi classici a brani elettronici dal sapore fresco e deciso, con un retrogusto di eurodance anni ‘90. Rispetto ai suoi ultimi exploit è un lavoro più ispirato – cosa per nulla scontata, visto che è la prima volta che si cimenta con un sound così lontano dall’R&B – ma ha una grande pecca: c’è troppa differenza tra i brani soul e quelli dance, sembra di ascoltare il best of di due album diversi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Insomma, queste session sono costruite a tavolino per stupire e in effetti stupiscono, ma la sensazione è che abbiano esagerato mettendoci dentro di tutto un po’; avrebbero forse fatto meglio a dividerle in due capitoli.

I primi 10 anni di carriera di Mary J. Blige, nota anche come “The Queen of hip hop-soul”, sono stati turbolenti. Scoperta da Puff Daddy nel 1991, era una ragazzina inquieta e incapace di gestire il successo, segnata da un passato di povertà e abusi. Dal punto di vista artistico, però, i guai sembravano farle bene: sull’onda dei suoi tormenti ha regalato al mondo album viscerali come My Life o Mary, in cui anche i brani più allegri erano velati da una struggente malinconia.

Nel 2001, la svolta con No More Drama: trovata finalmente la pace interiore, aveva deciso di provare a cantare la sua felicità. Da allora ha perseverato su questa strada, con risultati alterni (diciamo che le riescono meglio le canzoni tristi) e qualche vero e proprio flop. È il caso di Think Like a Man Too, il suo penultimo album, uscito nell’estate 2014 e ignorato da tutti: leggenda vuole che per rimediare Mary abbia voluto assemblare in tutta fretta un nuovo disco con sonorità ispirate a F for You, la hit dance realizzata con i Disclosure. Per registrarlo è volata a Londra e ha lavorato con artisti che in molti casi hanno la metà dei suoi anni (gli stessi Disclosure, Sam Smith, Emeli Sandé e Naughty Boy).

Il risultato è questo The London Sessions, progetto molto eterogeneo: si va da ballad strappacuore che non sfigurano a confronto dei suoi grandi classici a brani elettronici dal sapore fresco e deciso, con un retrogusto di eurodance anni ‘90. Rispetto ai suoi ultimi exploit è un lavoro più ispirato – cosa per nulla scontata, visto che è la prima volta che si cimenta con un sound così lontano dall’R&B – ma ha una grande pecca: c’è troppa differenza tra i brani soul e quelli dance, sembra di ascoltare il best of di due album diversi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Insomma, queste session sono costruite a tavolino per stupire e in effetti stupiscono, ma la sensazione è che abbiano esagerato mettendoci dentro di tutto un po’; avrebbero forse fatto meglio a dividerle in due capitoli.

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