Mark Lanegan guarda alla new wave. E non è una buona idea | Rolling Stone Italia
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Mark Lanegan guarda alla new wave. E non è una buona idea

L’ultimo album del rocker americano ‘Somebody’s Knockin’ è discontinuo. Lanegan pubblica troppi dischi?

Mark Lanegan

Foto: Travis Keller

«Ma io lo so chi è Mark Lanegan, arrogante bottegaio indegno della roba che vendi qui dentro, alternativo dei miei coglioni, che quando io ascoltavo i Dead Kennedys tu nemmeno ti facevi le pippe». Non riesco a pensare Mark Lanegan senza farmi tornare in mente questa citazione di Tono metallico standard degli Offlaga Disco Pax, anche se in effetti ho passato l’adolescenza a confondere Mark Lanegan con Bill Callahan, vuoi per l’assonanza dei nomi, vuoi per le effettive somiglianze nella voce baritonale e in un certo immaginario americano in comune nella loro narrazione. Se però Bill Callahan se n’è uscito con uno dei dischi più belli del 2019 – il meraviglioso e lunghissimo Shepherd in a Sheepskin Vest pubblicato dopo anni di silenzio – non si può dire lo stesso di Somebody’s Knocking di Mark Lanegan, sia in termini di qualità (almeno per gli standard a cui siamo abituati), sia di produttività: si tratta del sesto disco in quindici anni, a cui se ne aggiungono due insieme a Duke Garwood e tre con Isobel Campbell. Non è un dato oggettivo, ma diciamo che potrebbe non essere facile trovare buone idee tenendo questo ritmo di quasi un disco all’anno, neanche per un artista della sua caratura.

Chiariamo subito: sarebbe sbagliato considerare Somebody’s Knocking un brutto disco. Il fatto è che fino a oggi eravamo abituati a confrontarci con due “macro anime” di Lanegan: quella acustica e introspettiva e quella più elettrica e concitata. Due facce della stessa medaglia, in perfetta armonia, accomunate dalla voce baritonale, graffiata dal fumo delle sigarette, dal retrogusto di distillati superalcolici, da un’aura oscura e solitaria e soprattutto da pochissimi fronzoli. In poche parole: puro rock statunitense, con annesse storie di dipendenze, ricadute e via discorrendo.

Il copione viene seguito anche in Disbelief Suspension che apre il disco con un riffone di chitarra elettrica e un rullante che incalza insieme allo slogan «D’you wanna take a ride?». Il pezzo segue alla perfezione lo schema degli incipit di tutti gli ultimi dischi “a maggioranza elettrica” di Lanegan: succedeva in Blues Funeral con The Gravedigger’s Song e nell’ultimo Gargoyle con Death’s Head Tattoo, rigida struttura di chitarre, batteria serrata, voce cupa e bando alle ciance, in pochi secondi si è già completamente dentro alla faccenda con tutti gli stivali. L’atmosfera regge con qualche scricchiolio anche nei due pezzi successivi Letter Never Sent e Night Flight to Kabul, sebbene con qualche scricchiolio e strani presagi. Ma ecco che iniziano ad arrivare le sorprese, se vogliamo chiamarle così. D’altra parte nel già citato titolo di apertura il messaggio era chiaro: la “sospensione dell’incredulità” implica la consapevolezza dello spettatore di essere di fronte a un’opera che è incongruente e innaturale. Un fattore che quando parte Dark Disco Jag non ci impedisce di chiederci che cazzo ci fanno quei sintetizzatori e quel beat in un disco di Mark Lanegan.

Mark Lanegan Band - Night Flight to Kabul

Magari è solo una sbandata, d’altra parte il disco è stato registrato in soli undici giorni, si sarà trattato di un attimo di debolezza. Poi parte Penthouse High e le chiacchiere stanno a zero, sembra un pezzo dei Simple Minds. È così che all’improvviso anche tutto il resto brilla di una luce diversa: Gazing from the Shore è un pezzo post punk, ci si arriva subito, ma c’è di più, al primo ascolto affiora il dubbio, ma già al secondo e al terzo siamo di fronte a delle certezze, Name and Number e Radio Silence pagano un grande tributo ai Joy Division. Insomma, se non si fosse capito, Lanegan ha fatto un disco che vira pesantemente su influenze new wave e soprattutto British. E questo è come minimo un po’ strano, ecco, per il cantore della provincia americana. Quattordici tracce e nemmeno una acustica, anche se compaiono brani leggermente più armonici come Paper Hat, un arpeggio riverberato che anche in questo caso ha un’atmosfera anni ’90 – non i ’90 grunge che Lanegan ha vissuto con gli Screaming Trees, ma quelli più pop-rock dall’altra parte dell’oceano – così come è pacato e addirittura soave (per uno aspro come Lanegan) il pezzo di chiusura Two Bells Ringing at Once che in qualche modo ricorda David Bowie, ma questo potrebbe essere benissimo causato dal fatto che vedo il fantasma di Bowie ovunque.

Somebody’s Knocking non è un brutto disco, ma un lavoro con troppe imperfezioni, mettiamola così. Numeri alla mano, i pezzi buoni superano in numero quelli riempitivi e di passaggio, ma non basta a non relegare Somebody’s Knocking nella categoria dei pochi dischi minori della discografia di Mark Lanegan.

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