M.I.A. è l'unica vera bad girl di questo secolo | Rolling Stone Italia
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M.I.A. è l’unica vera bad girl di questo secolo

"M.I.A. - La cattiva ragazza della musica" è la storia di una ragazza cingalese che contro tutto e tutti è diventata la popstar più scomoda e incredibile della storia della musica.

«Perché sei una popstar problematica?» chiede l’operatore a M.I.A. in un momento di pausa durante le riprese del video di Borders. «Perché non…» «Sto zitta?» interrompe lei con tono scherzoso ma con fierezza. «Perché non sto zitta e mi limito a scrivere canzoni? Se stessi zitta, finirei per diventare una tossica e forse andrei in overdose o comunque molto male. Perché è questo ciò che succede quando non esprimi ciò che hai dentro.»

La scena è tratta da M.I.A., la cattiva ragazza della musica, ma per la sua schiettezza e la sintesi è stata giustamente scelta dal regista Steve Loveridge praticamente come scena di apertura del docufilm. Per intenderci, il lavoro di Loveridge qui è stato ottimo, ma decisamente marginale. Banalmente, perché Mathangi Arulpragasam detta Maya, la ragazzina che poi diventerà una delle popstar più anomale della storia del pop, il docufilm su se stessa l’ha iniziato da sola, con la sua videocamera, già nel 1996. All’epoca Maya è solo una studentessa d’arte della Central Saint Martins di Londra (l’unica mulatta della scuola, come fa notare un amico intervistato) che sogna di diventare una documentarista.

Il motivo di questa scelta è semplice. In cingalese il suo cognome Aulpragasam significa “figlia di Arul”, c’è quindi una connessione potentissima col padre e sarà questa la chiave di tutto. Arul è infatti il fondatore del movimento armato Tamil, una minoranza dello Sri Lanka da sempre sottoposta a persecusioni e soprusi da parte di governo, esercito e autorità cingalesi. È un vero e proprio massacro quello a cui i Tamil sono sottoposti, tanto da costringere la famiglia di Maya a emigrare a Londra come rifugiati politici nel 1985, prima la madre con i bambini e poi anche Arul, il capofamiglia.

La cacciata forzata dal proprio Paese, crescere in una scuola dove non esistono neri neanche mulatti, ma al contempo la contaminazione con il dub, la dancehall e altri linguaggi parlati dalla fauna del sottobosco londinese fanno sì che si crei un organismo unico, un’anomalia che nel ceto medio-borghese (genere in cui storicamente la musica trova terreno più fertile) non si sarebbe mai e poi mai manifestata.

M.I.A., la cattiva ragazza della musica, a parte una traduzione del titolo che si sarebbe potuta tranquillamente evitare in Italia, è un documentario immenso, che mostra in prima persona, con filmati home-made, la fragilità di una ragazza e la mostruosa, tenace reazione che l’ha portata a essere l’artista più scomoda che sia mai esistita nel pop. Quella che ha fatto un plateale suca all’America bigotta dell’halftime del Superbowl, quella che per prima ha trattato il tema dei migranti, quella che, sdraiata su un divanetto di un hotel a cinque stelle di Londra, con un sorrisetto mi ha aperto gli occhi: «Matangi nell’induismo è la dea della musica e della libertà di parola.»

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