Snail Mail, la recensione di 'Lush' | Rolling Stone Italia
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L’incantesimo indie rock di Snail Mail

'Lush' è l'esordio perfetto di un piccolo prodigio: non c'è nessuna crisi, il futuro della chitarra ha il viso di una 18enne di Baltimora

«Mi sento come un vecchio disincantato», dice Lindsey Jordan in una delle tante interviste che le sono franate addosso dopo l’uscita di Habit, il piccolo diario slowcore che l’ha portata via dalla sua Baltimora. Aveva 16 anni, e nascosta dietro all’alias Snail Mail si è ritrovata nel mezzo dell’ondata indie 2.0 al femminile, lo specchio con la chitarra del soundcloud rap e di tutte le derive DIY dell’hip hop.

L’accostamento sembra paradossale, ma non lo è. Si tratta della stessa generazione, adolescenti che vivono nella stessa America ma che osservano da prospettive opposte: da una parte ci sono Spooky Black, Lil Peep e XXXTentacion e gli altri cloud rappers con autotune e ansia allo sciroppo, dall’altra ecco Soccer Mommy e Snail Mail, chitarre elettriche ed epifanie metropolitane riverberate e gender fluid. Piccoli racconti scritti con linguaggio universale, quasi mai connotato geograficamente o biograficamente.

Lush, il primo vero album di Snail Mail, è un romanzo di formazione suonato benissimo e scritto con semplicità. La Jordan è un piccolo fenomeno della chitarra – ha studiato con Mary Timony degli Helium e Katie Crutchfield dei Waxahatchee, altro nome fondamentale nel territorio del nuovo indie rock – ma fondamentalmente se ne frega dei virtuosismi, si concede al massimo il bell’arpeggio di Let’s Find An Out. La sua capacità di stare dentro il brano e non davanti ha un che di prodigioso, così come i suoi racconti di brutti amori, brutte feste, solitudini enormi. E se Pristine sarebbe da mettere in rotazione continua nella testa di chiunque abbia voglia di scrivere indie rock, Lush si concede anche episodi più meditativi, come la doppietta in chiusura Deep Sea / Anytime, con tanto di corno francese.

«Le canzoni sono quasi tutte nate da storie d’amore. Mentre scrivevo ho attraversato molte relazioni, ho capito cosa significa essere gay. Non è proprio questo il tema, ma ho sentito la necessità di essere onesta con me stessa. Posso usare qualsiasi pronome, che importa». Le canzoni rivelano una meraviglia patetica quando esaltano le contraddizioni, quando si illudono con i ti perdonerò per sempre, ti amerò per sempre, non cambierò mai. Lindsey Jordan sa bene che non è la verità, e magari lo ammette nel verso successivo. “Who’s on your mind? No more changes / I’ll still love you the same” (Pristine); “And in full control, I’m not lost / Even when it’s love, Even when It’s not”, (Full Control).

Lindsey Jordan è nata nel 1999, quando con 69 Love Songs Stephen Merrit raccontava la sua omosessualità e una generazione di introversi strappando dalla musica ogni sfarzo, ogni barocchismo. Lush fa la stessa cosa, solo che al posto del folk a bassa definizione dei Magnetic Fields c’è l’indie rock degli anni ’90. È un disco ubriaco di Pavement, ma non suona mai nostalgico o di maniera. Forse è un incantesimo, o forse il futuro ha il viso di questa ragazzina di Baltimora. «Voglio solo essere una cantautrice nella sua stanza», spiega quando le chiedono cosa si aspetta dalla sua carriera. «Credo che la mia vittoria più grande sia la vulnerabilità». Ha ragione.

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