Leonard Cohen - You Want It Darker | Rolling Stone Italia
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Leonard Cohen – You Want It Darker

Leggi la recensione del disco di Leonard Cohen su Rollingstone.it

A 82 anni, Leonard Cohen è rimasto l’ultimo cantautore sulla Terra a saper dare un significato a parole come fool, game, light, pain, night, love, water, you. Parole pure, gelide come un quadro di Hopper, dense come dovevano essere nelle mani di certi parolieri negli anni ’50. Pesanti e squadrate come vecchi mattoni scuri, tanto da faticare a reggerne il peso con la voce indebolita dagli anni e appiattita nel soffio di un respiro roco. “Sto lasciando il tavolo / sono fuori dal gioco”, canta in Leaving the Table, e si precedere dalla civetteria da serie tv di una chitarra twangy. Si descrive in Treaty “stanco e arrabbiato tutto il giorno”, come la metà di un’eterna coppia, lui e lei, probabilmente una casa spoglia come nei racconti di Carver, e si dispiace “per il fantasma che ti ho fatto diventare”. Cambia idea, si intenerisce: le foglie sull’albero e l’acqua nel mare esistono solo se ho il tuo amore che le rende vere (If I Didn’t Have Your Love). Ascolta le sirene: in Traveling Light è ancora il viaggiatore di 40 anni fa che ascoltava il rebetiko in una taverna di Hydra: “Sono in ritardo / hanno chiuso il bar /, una volta ci suonavo la chitarra”. Musica greca, musica ebraica, pop song anni ’50. Le canzoni di Cohen vivono in un mondo immutabile, quello della poesia. Le canzoni, diceva più o meno il suo allievo Nick Cave, non sanno profetizzare nulla prima che accada, ma le parole sanno interagire con il tempo in forme misteriose, talvolta inquietanti. Accompagnato dalle voci dei cantori della sinagoga di Montreal, la stessa che frequentava da bambino, Leonard Cohen dice: “Eccomi, sono pronto mio Signore”. Si avverte bene nel corso della canzone il taglio e il montaggio di take vocali diversi, come se la registrazione – forse quella più recente del disco – avesse richiesto un sforzo troppo grande per l’anziano poeta. Anche se ne farà degli altri, non si può restare indifferenti alla malinconia postuma dell’“ultimo disco di” che attraversa tutte queste canzoni. Al curioso paradosso circolare per cui l’ultimo è quasi perfettamente uguale al primo disco, 40 anni fa. Tu vuoi più buio / Noi Spegniamo le candele.

Questa recensione è stata pubblicata su Rolling Stone di novembre. Potete leggere l'edizione digitale della rivista, basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.
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A 82 anni, Leonard Cohen è rimasto l’ultimo cantautore sulla Terra a saper dare un significato a parole come fool, game, light, pain, night, love, water, you. Parole pure, gelide come un quadro di Hopper, dense come dovevano essere nelle mani di certi parolieri negli anni ’50. Pesanti e squadrate come vecchi mattoni scuri, tanto da faticare a reggerne il peso con la voce indebolita dagli anni e appiattita nel soffio di un respiro roco.
“Sto lasciando il tavolo / sono fuori dal gioco”, canta in Leaving the Table, e si precedere dalla civetteria da serie tv di una chitarra twangy. Si descrive in Treaty “stanco e arrabbiato tutto il giorno”, come la metà di un’eterna coppia, lui e lei, probabilmente una casa spoglia come nei racconti di Carver, e si dispiace “per il fantasma che ti ho fatto diventare”. Cambia idea, si intenerisce: le foglie sull’albero e l’acqua nel mare esistono solo se ho il tuo amore che le rende vere (If I Didn’t Have Your Love). Ascolta le sirene: in Traveling Light è ancora il viaggiatore di 40 anni fa che ascoltava il rebetiko in una taverna di Hydra: “Sono in ritardo / hanno chiuso il bar /, una volta ci suonavo la chitarra”.
Musica greca, musica ebraica, pop song anni ’50. Le canzoni di Cohen vivono in un mondo immutabile, quello della poesia. Le canzoni, diceva più o meno il suo allievo Nick Cave, non sanno profetizzare nulla prima che accada, ma le parole sanno interagire con il tempo in forme misteriose, talvolta inquietanti. Accompagnato dalle voci dei cantori della sinagoga di Montreal, la stessa che frequentava da bambino, Leonard Cohen dice: “Eccomi, sono pronto mio Signore”. Si avverte bene nel corso della canzone il taglio e il montaggio di take vocali diversi, come se la registrazione – forse quella più recente del disco – avesse richiesto un sforzo troppo grande per l’anziano poeta.
Anche se ne farà degli altri, non si può restare indifferenti alla malinconia postuma dell’“ultimo disco di” che attraversa tutte queste canzoni. Al curioso paradosso circolare per cui l’ultimo è quasi perfettamente uguale al primo disco, 40 anni fa. Tu vuoi più buio / Noi Spegniamo le candele.

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