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L’album soul di Bruce Springsteen è buono a metà

In ‘Only the Strong Survive’ Springsteen continua l’opera di recupero del passato. Bella l’idea di ridare vita a pezzi di culto tirando fuori la sua voce soul, meno brillante la produzione. Ma come, Bruce, hai a disposizione un mondo di musicisti e fai suonare quasi tutti gli strumenti a Ron Aniello?

Bruce Springsteen

Foto: Danny Clinch

Sono anni di ricordi e di riflessione per Bruce Springsteen. Ha rifatto per intero i suoi album in concerto, ha raccontato la sua vita in un’autobiografia e in un teatro di Broadway, ha reso omaggio agli amici d’infanzia scomparsi. Persino quando ha pubblicato un disco di nuove canzoni con la E Street Band, Letter to You del 2020, ha ripreso alcuni vecchi pezzi risalenti agli anni ’70.

Ora, a 73 anni d’età, nell’album di reinterpretazioni rispettose di pezzi soul e r&b Only the Strong Survive continua a battere la strada del ricordo nostalgico. E del resto le prime parole che si sentono nel disco sono proprio “io ricordo”. Le cover risalgono per lo più a metà/fine anni ’60. Sono gli anni formativi del giovane Springsteen, quand’era un teenager in cerca di un’identità musicale con in braccio la sua prima chitarra.

Non siamo dalle parti del revivalismo da libro di storia delle Seeger Sessions, l’album del 2006 dove Springsteen rifaceva pezzi centenari. Queste cover sono una faccenda personale. Mettono un punto fermo su una cosa che l’artista ha sempre sostenuto riguardo alle influenze subite. Come ha detto una volta, «chiunque suonasse in un bar del New Jersey centrale negli anni ’60 e ’70 faceva soul».

È perciò un gran peccato che, a parte qualche fiatista e un’apparizione di Sam Moore, in questa lettera d’amore all’r&b non compaiano i grandi musicisti soul che Springsteen ha incrociato in passato. Only the Strong Survive è il prodotto di alcune session casalinghe fatte durante il lockdown, col fido produttore Ron Aniello che suona tutti gli strumenti non a fiato. Ad animare questo pastiche rétro soul sono arrangiamenti a volte scarni (si veda la versione di Any Other Way di Chuck Jackson) che ricordano gli ultimi LP ormai dimenticati di grandi del soul come Sam & Dave e Percy Sledge alle prese con sterili ri-registrazioni dei propri successi.

Nonostante gli arrangiamenti a tratti statici e imitativi, la voce di Springsteen fa scintille. Sentite come il suo fraseggio evoca la nostalgia di Soul Days di Dobie Gray o il modo in cui usa il falsetto come mezzo narrativo in I Wish It Would Rain dei Temptations. Springsteen ha cantato (e scritto) a lungo con voce soul. Finora però l’ha relegata a progetti collaterali (vedi outtake come Back in Your Arms o Savin’ Up scritta per Clarence Clemons). Qui, invece, usa quella voce per interpretare vari ruoli: il ricercatore di chicche poco note (Do I Love You di Frankie Wilson), l’uomo che s’è pentito e chiede perdono (I Forgot to Be Your Lover di William Bell), l’artista che ricorda chi è venuto prima di lui (Nightshift dei Commodores), l’uomo che ridefinisce i canoni (per lui, che viene dal Jersey, The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore di Frankie Valli è soul quanto quanto i dischi della Stax).

E poi c’è una canzone, all’incirca a metà della tracklist, in cui Springsteen esce dal copione. “Ricordo le sere d’estate in riva al mare”, recita prima del ritornello che chiude Don’t Play That Song di Aretha/Ben E. King, “il gruppo che suonava, tu fra le mie braccia”. È in parte performance alla James Brown, in parte fantasticheria da boardwalk, in parte camp. Suona come una cosa che Bruce avrebbe potuto fare all’epoca ed è questo il punto. Springsteen sta cercando un altro modo per iscrivere la sua storia personale nella grande storia della musica americana.

Tradotto da Rolling Stone US.

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