‘La regina degli scacchi’ è una partita bellissima, anche se non fa scacco matto | Rolling Stone Italia
Recensioni

‘La regina degli scacchi’ è una partita bellissima, anche se non fa scacco matto

La miniserie Netflix avrebbe forse funzionato meglio come film, ma è uno spettacolo elegante e godibile. E Anya Taylor-Joy è semplicemente fenomenale

Anya Taylor-Joy è ‘La regina degli scacchi’

Foto: Netflix

Nel bellissimo film del 1993 In cerca di Bobby Fischer, l’enfant prodige Josh si trova tra due mentori: Bruce Pandolfini, un giocatore esperto e distaccato che preferisce ridurre i rischi durante le partite; e Vinnie, che invece truffa i turisti al parco e incoraggia Josh a giocare nel modo più rapido e spericolato possibile. Il vero Bruce Pandolfini è stato uno dei consulenti della Regina degli scacchi, la nuova miniserie Netflix che è il coming of age di una ragazza genio della scacchiera nell’America della Guerra Fredda. Pandolfini aveva rivestito lo stesso ruolo quando fu chiamato nel 1983 da Walter Tevis, autore del romanzo a cui la serie è ispirata. Perciò non è un caso se anche questa versione opta per uno stile di gioco più misurato. Riesci quasi a sentire Vinnie imprecare davanti alla tv, convinto che il modo di giocare mostrato qui sia più sinonimo di non voler perdere, invece che di voler vincere.

La storia, in realtà, sembra partire con un ritmo molto più spedito. In un lussuoso hotel parigino, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy) ingoia delle pillole per combattere l’hangover e poi corre per i corridoi, fino a raggiungere la conferenza stampa del suo ultimo torneo. Ovviamente, è una falsa partenza: gli sceneggiatori di oggi non hanno abbastanza fiducia nell’inizio delle loro storie, quindi fingono di cominciare in medias res. In realtà, da quell’anticipazione di quello che verrà (*) siamo subito catapultati nell’infanzia di Beth (interpretata da bambina dall’esordiente Isla Johnston), cresciuta in un orfanotrofio del Kentucky in cui le giovani ospiti sono imbottite di farmaci.

(*) La falsa partenza è ancora più falsa. Quando, qualche episodio più avanti, arriviamo finalmente alla scena ambientata nell’hotel di Parigi, ci rendiamo conto che non è un momento cruciale nella vicenda di Beth, ma semplicemente una delle sequenze visivamente meglio confezionate, e dunque capaci di attirare l’attenzione dello spettatore e convincerlo a seguire la serie.

Pandolfini è stato coinvolto per prestare la sua consulenza sulle partite del romanzo e, ora, della serie. Le critiche al ritmo un po’ troppo lento vanno rivolti, se mai, a Scott Frank, che ha diretto tutte le puntate e ha adattato il libro di Tevis insieme ad Allan Scott, uno dei principali promotori dell’idea, oggi molto in voga, che i prodotti per la tv debbano essere costruiti esattamente come i film, solo più lunghi. Frank ha lavorato per il piccolo schermo all’inizio della sua carriera: ha firmato un episodio della prima stagione di Blue Jeans; quindi, è stato lo sceneggiatore di splendidi film “di genere” come Out of Sight, Minority Report e Logan. Avendo voglia di mettersi dietro la macchina da presa, ma non trovando uno studio che finanziasse il suo progetto, ha realizzato per Netflix la miniserie Godless, affresco western sulla rivalità tra due fuorilegge ambientato in un villaggio di frontiera abitato solo da donne. Uscita nel 2017, Godless è un titolo che ancora oggi vi consigliamo caldamente di vedere. Frank ha saputo tirare fuori il meglio da attori come Jeff Daniels, Merritt Wever e Michelle Dockery. La serie è splendidamente girata e fotografata, con più di una sequenza in grado di lasciare a bocca aperta per la sua composizione visiva ed estetica. Ti lascia però la sensazione che Frank abbia “espanso” il film che inizialmente aveva previsto perché così gli era stato chiesto di fare, e non perché la sua storia avesse realmente bisogno di quella durata (*).

(*) Sette ore sono un tempo eccessivo per Godless. Il conflitto tra i due fuorilegge non è materiale sufficiente a riempire tutti quegli episodi, mentre il ritratto della comunità al femminile è paradossalmente poco sviluppato. Ridurre il racconto del primo e allargare quello del secondo avrebbe forse giovato di più.

Godless, nonostante questo, ha vinto diversi Emmy (tra cui quelli per le performance di Daniels e Wever), e ha consentito a Frank di portare su Netflix anche La regina degli scacchi, dopo che Scott – che cercava di trarre un film dal romanzo di Tavis fin dalla sua uscita – lo ha contattato perché dirigesse la serie. Il risultato è molto simile: un progetto esteticamente bellissimo e interpretato benissimo, ma al servizio di una storia che fa spesso l’effetto di un brodo allungato.

C’è un motivo per cui il ritmo delle scene ambientate nell’orfanotrofio è così lento: fa capire che Beth diventa dipendente dai tranquillanti per sfuggire alla rigida disciplina della direttrice Helen Deardorff (Christiane Seidel, uno dei tanti volti di Godless che ritroviamo nel cast). Ma la cosa ci è ben chiara anche prima che Beth scopra che il guardiano dell’istituto, Mr. Shaibel (il grandissimo caratterista Bill Camp), gioca a scacchi contro sé stesso nelle cantine. Non serve aver visto altri film sul tema – o qualunque storia su un talento in erba con un mentore anziano e scorbutico – per sapere come andrà a finire. Ma Camp interpreta il ruolo di Shaibel con una tale serietà, e con altrettanta tenerezza nei confronti della bambina, che l’“allenamento” di Beth risulta trascinante anche tra le scene piuttosto ripetitive dell’orfanotrofio.

Taylor-Joy prende molto presto il ruolo di Beth e, anche se non è molto credibile come quindicenne – anzi meno, quando la direttrice abbassa la sua età per convincere Alma Wheatley (interpretata da Marielle Heller, già regista di Copia originale) ad adottarla –, è un volto perfetto nelle mani di Frank e del direttore della fotografia Steven Meizler. La sua faccia spigolosa e gli occhi grandissimi parlano da soli, tanto più considerato che Beth non è una grande chiacchierona. Grazie al suo viso, alle acconciature create da Daniel Parker e allo stilosissimo guardaroba che la costumista Gabriele Binder le fa indossare, Taylor-Joy illumina ogni scena, anche prima che altri personaggi la vedano giocare e capiscano quello che Mr. Shaibel aveva realizzato fin dall’inizio: «Lasci senza parole, ragazzina».

Foto: Netflix

I primi episodi sono la cronaca dettagliatissima di Beth che impara a giocare, e che poi s’impone sulla scena degli scacchi locale. Si avverte bene, in queste scene, il senso del suo partire svantaggiata, un po’ perché quell’ambiente è dominato dai maschi, un po’ perché tutte le persone attorno a lei sembrano non curarsi della sua passione. Frank e la sua squadra (tra cui la montatrice Michelle Tesoro) trovano modi efficaci per costruire il ritmo dei tornei – in una sequenza viene utilizzata una vera e propria scacchiera, per mostrare tutte insieme le partite giocate in simultanea –, ma sembrano aver già sprecato tutte le idee migliori quando arrivano allo scontro finale. E la capacità di Beth di battere avversari che la trattano sempre come una pivellina diventa ripetitiva, soprattutto quando inizia ad essere presa sul serio nelle competizioni.

Anche qui conta il carisma di Taylor-Joy e il suo spettro interpretativo molto ampio, che emerge soprattutto nell’ironia con cui Frank dipinge il mondo degli scacchi attraverso l’iconografia tipica dei racconti di spionaggio ambientati durante la Guerra Fredda. Anche se non amate le architetture anni ’60 tanto quanto sembrano apprezzarle Frank e il suo scenografo Uli Hanisch, vi divertirete comunque di fronte ai set che fanno da sfondo all’ascesa di Beth, fino alla partita decisiva contro il suo rivale sovietico. (La colonna sonora, fortunatamente, evita i cliché dei successi del tempo, ma, in uno degli ultimi episodi, cede alla hit For What It’s Worth dei Buffalo Springfield.)

Ma, alla fine, Frank e Scott non hanno molto da raccontare a proposito della dipendenza di Beth e della sua lotta contro i farmaci; né dell’isolamento a cui è condannato un genio. E non sfruttano il tantissimo tempo a disposizione neanche per affrescare meglio l’universo che circonda la protagonista. Alcuni attori di contorno come Thomas Brodie-Sangster, nei panni del campione americano in carica Benny, fanno apparizioni fin troppo fugaci, e in generale le relazioni tra i personaggi restano poco approfondite. Viene suggerita una storia d’amore tra Beth e il belloccio rivale Townes (Jacob Fortune-Lloyd), ma per parecchio tempo è come se scomparisse, prima di tornare alla fine, improvvisamente trattata come se fosse una parte essenziale della storia. E la sceneggiatura non riesce a tirare le fila della natura contraddittoria di Beth, della sua difficoltà a socializzare anche quando le sue amiche (in particolare la compagna di orfanotrofio Jolene, cui dà volto Moses Ingram) le sono totalmente devote. Come se gli autori desiderassero, per questa copia immaginaria e al femminile di Bobby Fischer, una vita più felice di quella che ha realmente avuto, ma senza che ciò venga mai fuori davvero.

Molti di questi punti deboli sarebbero passati in secondo piano, se dalla Regina degli scacchi Frank avesse tratto un film, o anche solo una miniserie di tre o quattro episodi, e non sette. Proprio come in Godless, molti dei difetti emergono solo per colpa della durata, mentre gli elementi migliori (la performance di Taylor-Joy, la maestria tecnica) vengono sminuiti, nella prolissità del racconto. Ciò che Beth aveva insegnato alla madre adottiva Alma, Alma lo ritrova osservando gli spettatori durante le partite della figlia: «Ho notato che le mosse che vengono applaudite di più sono quelle più veloci». Se solo La regina degli scacchi avesse fatto tesoro di questa lezione…

Da Rolling Stone USA

Altre notizie su:  Anya Taylor-Joy