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La dura vita da rockstar dei Cage the Elephant

Il nuovo album 'Social Cues' è un ottimo lavoro della band di Matt Shultz e soci, che esplora i confini di cosa significa fare rock oggi
4 / 5

È una lunga tradizione del rock & roll, quella di scrivere canzoni sull’alto prezzo del successo in termini di esaurimento nervoso, sanità mentale e relazioni durature. Le star del rock moderno, i Cage the Elephant, cambiano marcia su Social Cues, il loro quinto album in studio. E il momento di pagare il conto è arrivato, con un tono di vendetta. “I was promised the keys to an empire“, afferma il cantante Matt Shultz nel garage-rock di apertura Broken Boy. Ma lui è già fritto nella traccia successiva, la title-track. “Non ho la forza di suonare bene”, ammette Shultz andando a scontrarsi con un mix di tastiere dirty-glam e chitarra da cowboy spaziale. “People always say/Man, at least you’re on the radio”, fa presente nel coro. E suona come un piccolo conforto.

Se quella del burn-out è una vecchia storia, Social Cues è un racconto dinamico e non comune di una band nata nel Kentucky che è stata difficile da definire fin dal suo breakout del 2009 Ain’t No Rest for the Wicked, un singolo che ha venduto milioni di copie. Social Cues, a confronto dei passati dischi della band, è puro gotico americano. L’album è stato prodotto da John Hill, una scelta sorprendente dati i suoi successi (con tanto di Grammy) con Eminem, Rihanna e Portugal. The Man. Ma il tono pop di Hill e l’eccentrica energia dei Cage generano una tensione di ombre sapientemente disegnate e ritornelli scintillanti che suonano come se Tom Petty e gli Heartbreakers fossero stati influenzati dai Cure e da David Bowie dell’era berlinese invece che dai Byrds e dagli Zombies. I ricordi di Bowie fioriscono in Social Cues in modo quasi letterale, una discendenza diretta dal suo classico del 1980, Ashes to Ashes. Night Running, che vede Shultz in duetto con Beck, è un canto di mezzanotte con effetti dub-reggae alla Sandinista dei Clash!

Ma l’urgenza presente in Social Cues è tangibile. In House of Glass, il chitarrista Brad Shultz sottolinea le mitragliate di suo fratello alla voce con improvvise esplosioni di fuzz. Love’s the Only Way è, invece, un territorio più morbido. E se Tokyo Smoke inizia come un pezzo che trasuda l’angoscia dei Cure, i Cage lo finiscono con la loro grandiosità un po’ grezza, un rock pesante e rognoso e uno stile orchestrale, tanto conflittuale come quello che esprime il loro cantante. Come dice Shultz, “My public smile, my double face/Half in the light, half in the shade/Need some fresh air, no place tonight“.

I Cage the Elephant non sono la prima band a fare un disco sul crocevia della vita rock & roll, e non saranno gli ultimi. La lezione è ovvia: fate attenzione a ciò che desiderate. Ma quando riuscite ad averla, insistete e spaccate tutto. Se questo è il metodo, con Social Cues i Cage the Elephant riescono a portare a casa il risultato.

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