Julia Holter, la recensione di Aviary su Rolling Stone.it | Rolling Stone Italia
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Julia Holter se ne infischia del pop

Dopo il successo commerciale di 'Have you in my wilderness" l'artista americana torna con 'Aviary': un disco d'avanguardia, disturbante e sperimentale con cui rischiare tutto per raccontarsi come mai prima

«I’m in love, what can I do? Oh, I’m in love, who cares what people say?» canta Julia Holter in I shall love 2 – uno stomp fiabesco che fa pensare ai Velvet Underground di There she goes again – il singolo che ha anticipato il suo quinto album Aviary, un verso nel quale è seminato un indizio cruciale per capire le sue intenzioni in questo disco: Julia Holter se ne infischia dell’opinione del pubblico, lei è innamorata del caos e l’ha infilato tutto nel suo disco più sperimentale e d’avanguardia della sua carriera, che ha effettivamente lasciato tutti di stucco.


Del resto lo stato d’animo fu uguale e opposto anche quando nel 2015 uscì Have you in my wilderness, un disco pop nelle intenzioni e nei risultati ottenuti, osannato unilateralmente da critica e pubblico, finito tra le prime posizioni di tutte le classifiche di fine anno e che la consacrò definitivamente nel panorama indie-pop internazionale, dopo una lunga gavetta passata a registrare e produrre direttamente dalla sua stanza, mentre già riceveva apprezzamenti eloquenti sui principali canali di informazione indie in quanto quota di nicchia “sperimentale”, e vantava un paio di collaborazioni autorevoli come Linda Perhac e Nite Jewel.


Prima di Have you in my wilderness, Julia Holter era considerata un ibrido in grado di fare musica cervellotica piena di citazioni colte, in grado comunque di parlare con il medio-grande pubblico, soprattutto dopo l’approdo nel santuario “indie-mainstream” della Domino Records, avvenuto con un altro ottimo disco di spessore e di successo come Loud city song.

Dopo il grande riconoscimento, ci si aspettava che Julia Holter proseguisse in quella direzione, nella quale oltretutto non sembrava assolutamente snaturata o affettata e invece ecco una tracklist con quindici canzoni, nessuna sotto i quattro minuti, per un totale di un’ora e mezza di anti-pop radicale.
 «I found myself in an aviary full of shrieking birds» è una citazione che si trova in un racconto della scrittrice arabo-statunitense Etel Adnan che dà il titolo al disco e che rende perfettamente l’idea dietro al concept: Aviary è un’uccelliera nella quale sono rinchiuse un sacco di specie diverse di uccelli, che tutti assieme fanno un gran casino, ma poi, se si aguzza bene l’udito, si possono sentire anche canti soavi e melodie armoniose.


Si tratta di un disco complesso e come tutti i dischi complessi si inizia ad apprezzare solo dopo un paio di ascolti completi, anche se nel frattempo non è escluso ritrovarsi con un bel mal di testa. Julia Holter è stata ambiziosa e ha rischiato di brutto, mischiando dosi massicce di ingredienti pericolosi e invadenti, come la cacofonia e il minimalismo, i droni e le dissonanze, la polifonia e gli strumenti scordati, oltre alla solita serie di citazioni (impossibili da cogliere tutte), che vanno dall’Inferno di Dante alla musica popolare francese. Aviary è un disco disturbante ma assemblato alla perfezione nella sua teatralità spinta agli eccessi e che offusca gli spazi dove si annidano i pezzi più classici in cui ci sono solo un pianoforte e la voce di Julia Holter, che tra l’altro valgono sempre il prezzo del biglietto.


Siamo di fronte al lavoro acuto e profondo di un’artista ormai totalmente matura e perfettamente in grado di assumersi i rischi del mestiere e che ha scelto deliberatamente di divertirsi in un mondo medievale-futurista, una specie di Blade Runner sonorizzato da Vangelis con la ribeca, un mondo oscuro e retrogrado ma tecnologizzato, a tutti gli effetti non tanto diverso da quello reale, nel quale presto, su ogni legge della viralità e del successo, prevarrà solo quella del caos.

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