Jimi: All is by my side | Rolling Stone Italia
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John Ridley – Jimi: All is by my side

John Ridley (Oscar per "12 anni schiavo") scava dentro l’icona di Hendrix e ricava un ritratto sorprendente del musicista-uomo. Non è un documentario

Come si filma la vita di una leggenda come Hendrix? Con tutti gli stilemi noti: breve focus sul background socio-culturale che motivi le ansie di riscatto, antologia di aneddoti da giornalismo musicale, ripasso delle hit su movimenti di macchina vertiginosi (non manca mai la steady a seguire chi sale sul palco verso l’ovazione). Oppure si può cercare di demistificare il mito e cogliere la persona dietro la definizione di “genio”. Che mette d’accordo tutti, ma vale zero, se non se ne spiegano i perché. Magari ricordando che nel ’66/’67, anche nell’avanzatissima Londra, il circo mediatico era molto più ingenuo e lento.Sceneggiatore premio Oscar per 12 anni schiavo, il regista John Ridley ha scelto la seconda strada, più o meno agli antipodi dell’Oliver Stone di The Doors. Incassato il no sull’uso dei brani originali, ha tracciato un quadro essenziale ma efficace della scena in cui il 23enne di Seattle si ritrovò, curioso e molto invidiato, tra Clapton, Fab Four, Stones e l’aura di Dylan che già pesava su tutti. Invece di affliggerci rimettendo in scena Strato suonate coi denti, groupie d’avanguardia e calchi di gesso al pene, stupri dell’inno statunitense o incendi on stage – già tutto online – si ferma a un passo dalla performance iconica di Monterey, cercando un ritratto intimo del musicista, interpretato in maniera sorprendente da André Benjamin, mancinismo compreso.Amato e spronato da Linda Keith, già fidanzata di Keith Richards – è lei a convincere un già ammaliato Chas Chandler, bassista degli Animals, a diventarne manager – Jimi è un 20enne già uomo, che conosce la vita di strada, ma anche le buone maniere. Di lui conosciamo la coolness, la fragilità emotiva verso il padre, il pacifismo, la consapevolezza black, l’incapacità di vivere in coppia e stare dentro etichette musicali e politiche. Su tutto, com’è giusto, la concentrazione sulla sua musica, quella che sente solo nella sua testa, il battere delle dita sul manico anche durante l’act più fragoroso.Ecco perché è ancora più potente l’unica concessione del film allo spettacolo: il tributo irriverente al Saville Theatre, dove ai Beatles in sala la Jimi Hendrix Experience sparò una versione esplosiva di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il cui vinile era in vendita da poche ore. Perché, prima che esistessero gli scaffali di world music e fusion, la musica per Hendrix era già tutta, e di tutti, in costante dialogo con altra musica. We hope you will enjoy the show.

John Ridley (Oscar per "12 anni schiavo") scava dentro l’icona di Hendrix e ricava un ritratto sorprendente del musicista-uomo. Non è un documentario

Come si filma la vita di una leggenda come Hendrix? Con tutti gli stilemi noti: breve focus sul background socio-culturale che motivi le ansie di riscatto, antologia di aneddoti da giornalismo musicale, ripasso delle hit su movimenti di macchina vertiginosi (non manca mai la steady a seguire chi sale sul palco verso l’ovazione). Oppure si può cercare di demistificare il mito e cogliere la persona dietro la definizione di “genio”. Che mette d’accordo tutti, ma vale zero, se non se ne spiegano i perché. Magari ricordando che nel ’66/’67, anche nell’avanzatissima Londra, il circo mediatico era molto più ingenuo e lento.

Sceneggiatore premio Oscar per 12 anni schiavo, il regista John Ridley ha scelto la seconda strada, più o meno agli antipodi dell’Oliver Stone di The Doors. Incassato il no sull’uso dei brani originali, ha tracciato un quadro essenziale ma efficace della scena in cui il 23enne di Seattle si ritrovò, curioso e molto invidiato, tra Clapton, Fab Four, Stones e l’aura di Dylan che già pesava su tutti. Invece di affliggerci rimettendo in scena Strato suonate coi denti, groupie d’avanguardia e calchi di gesso al pene, stupri dell’inno statunitense o incendi on stage – già tutto online – si ferma a un passo dalla performance iconica di Monterey, cercando un ritratto intimo del musicista, interpretato in maniera sorprendente da André Benjamin, mancinismo compreso.

Amato e spronato da Linda Keith, già fidanzata di Keith Richards – è lei a convincere un già ammaliato Chas Chandler, bassista degli Animals, a diventarne manager – Jimi è un 20enne già uomo, che conosce la vita di strada, ma anche le buone maniere. Di lui conosciamo la coolness, la fragilità emotiva verso il padre, il pacifismo, la consapevolezza black, l’incapacità di vivere in coppia e stare dentro etichette musicali e politiche. Su tutto, com’è giusto, la concentrazione sulla sua musica, quella che sente solo nella sua testa, il battere delle dita sul manico anche durante l’act più fragoroso.

Ecco perché è ancora più potente l’unica concessione del film allo spettacolo: il tributo irriverente al Saville Theatre, dove ai Beatles in sala la Jimi Hendrix Experience sparò una versione esplosiva di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il cui vinile era in vendita da poche ore. Perché, prima che esistessero gli scaffali di world music e fusion, la musica per Hendrix era già tutta, e di tutti, in costante dialogo con altra musica. We hope you will enjoy the show.

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