Stephen Malkmus & The Jicks, la recensione di 'Sparkle Hard' | Rolling Stone Italia
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Il tempo non passa mai per Stephen Malkmus

Dai Pavement più classici fino a Wilco e Sparklehorse, ascoltare 'Sparkle Hard' significa tornare a quando la musica alternativa era agli apici

Qualche giorno fa ho visto un meme (non so se tecnicamente si può definire “meme”, anche se ormai tutto si può definire “meme”) in cui sostanzialmente un pupazzetto diceva “io che penso a vent’anni fa” e si immaginava gli anni ’80 e nel riquadro successivo si scontrava con la realtà: ovvero la fine dei ’90, che poi è quando si sono sciolti i Pavement ed è iniziata la carriera solista di Stephen Malkmus con i The Jicks.

Non so se Stephen abbia mai visto il meme, ma di sicuro non si è lasciato intimorire dal passare degli anni, perché in Sparkle Hard ci dà dentro come se niente fosse. Forse non come ai tempi di Slanted and Enchanted – quando l’energia vitale di quel fantastico e oggi innominabile mondo della musica alternativa era agli apici – piuttosto come se ci trovassimo, non so, in un 2003 qualsiasi.

Insomma, se vent’anni fa era presto per pensare con nostalgia a quell’indie-rock di stampo Usa, oggi abbiamo la minima distanza sindacale per farlo e Malkmus si attiene al protocollo: ci troverete ovviamente i Pavement più classici (Cast off, Middle America) quanto, a seguire, gli Yo La Tengo e gli Wilco nelle tracce più ritmate come Future Suite o Kite che ha quel wah wah che è proprio quel wah wah! Poi arrivano anche gli Sparklehorse più elettronici e i Superchunk più canonici, in brani come Shiggy o la doppia traccia finale Difficulties / Let them eat vowels.

C’è anche spazio per uno straniante scorcio di iper-contemporaneità con l’utilizzo dell’auto-tune in Rattler, ma non si fa in tempo a stranirsi che la nostalgia riemerge nella ballata Refute, dove sul più bello spunta fuori la voce di Kim Gordon, insieme alle grida di euforia e sorpresa da parte del pubblico, che però, okay, sono solo nella mia testa.

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