Il punto di non ritorno dei Liars | Rolling Stone Italia
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Il punto di non ritorno dei Liars

Dopo aver girato Stati Uniti ed Europa la band di Angus Andrew torna dove è nato tutto, in Australia

C’è stato un tempo in cui tra tutte le band della covata N.Y. di fine ’90 – per capirci: Strokes, Yeah Yeah Yeahs, Interpol, Rapture – i Liars sembravano i più originali. Quelli dai tratti più sfuggenti e policromi. Post-punk, nel senso più vasto, alto e creativo possibile. Dopo gli esordi col singolone Mr. You’re on Fire Mr. che a torto aveva inserito il loro nome tra quello dei fautori di una rinascita dance-rock, hanno mutato il loro suono fino a farlo diventare ancora più personale e riconoscibile. Come dei Birthday Party dell’era di Internet, con Angus Andrew a suo modo perfetto nell’incarnare una figura di frontman alla Nick Cave e Aaron Hemphill ad agire da terrorista sonoro.

Non hanno mai fatto un disco uguale all’altro, si sono evoluti, hanno cambiato stile, hanno attraversato mille fasi e alla fine forse sono arrivati al punto di non ritorno. E se anni fa avremmo scommesso su un futuro di Angus Andrew perfettamente a suo agio nelle vesti di crooner, possiamo dirci spiazzati da quello che di fatto, pur uscendo ancora a nome Liars, è a tutti gli effetti il suo primo disco da solista (Julian Gross aveva già lasciato prima di Mess). Dopo aver girato gli Stati Uniti e l’Europa (ha vissuto per anni a Berlino e poi a L.A.), Angus ha deciso di ripartire da se stesso e tornare dove è nato. In Australia.

Il risultato è questo TFCF che in qualche modo riporta la sigla Liars in uno strano spazio tra They Were Wrong, So We Drowned e alcuni brani, quelli meno percussivi, di Drums Not Dead. Insomma: per la prima volta si guarda indietro invece di provare a guardare avanti o quantomeno di lato. La sensazione, quindi, è che Andrew non abbia avuto il coraggio di distaccarsi del tutto dalle atmosfere per cui è noto, arrivando a concepire una sorta di “best of” dei Liars che furono.

Peccato però che, al netto di qualche episodio magistrale come Emblems of Another Story e l’elegiaca Ripe Ripe Rot (qui il fantasma di Cave si sente davvero), non riesca quasi mai ad affondare davvero il colpo. Forse è davvero finita.

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